«I consumatori chiedono etichette visibili, leggibili e comprensibili anche se spesso non sono così», scrive Beatrice Lopez laureata in Psicologia della Comunicazione e del Marketing presso l’università La Sapienza di Roma nella sua tesi di laurea dedicata all’etica nel food marketing.

 

La tesi ricorda come già il progetto FLABEL (Food Labelling to Advance Better Education for Life), promosso dall’Unione europea nel 2010 focalizza l’attenzione su come le etichette nutrizionali influiscono sulle abitudini alimentari dei consumatori.

 

Dalla ricerca emerge un dato significativo: il 65% dei prodotti riporta le informazioni nutrizionali sul retro della confezione, mentre oltre il 60% degli acquirenti si limita a guardarne la parte frontale. Nella maggioranza dei casi si tratta di scritte a caratteri piccolissimi (a volte per questioni di spazio, perché riportate in più lingue), con contrasti cromatici che le rendono quasi illeggibili, «inoltre ci sono indagini che mostrano come molti consumatori trovino poco chiaro il linguaggio utilizzato nelle etichette», osserva Lopez. «Mentre uno studio realizzato dall’università Parthenope di Napoli indica che il 90% dei consumatori vorrebbe maggiori informazioni».

 

 

A livello internazionale sono in discussione varie proposte per rendere più accessibili le informazioni che interessano davvero i consumatori: alcune sono forse troppo semplicistiche, come quelle che propongono di segnalare con un semaforo rosso gli alimenti “a rischio”, altre più interessanti, come il suggerimento di fornire le indicazioni nutrizionali relative a una confezione di prodotto – per esempio un vasetto di yogurt da 125 grammi – e non a 100 grammi in modo da rendere più trasparente l’informazione.

 

Ci sono anche altri elementi che influiscono sulle scelte dei consumatori in modo meno diretto ma comunque importante: come il fenomeno definito in termini tecnici size impression, le confezioni troppo ingombranti che traggono in inganno sulle dimensioni del contenuto del prodotto oltre ad aumentare la quantità di rifiuti da smaltire.«Pensiamo ai sacchetti di patatine semivuoti – spiega Lopez-, o a biscotti inseriti in un involucro di plastica poi ricoperti con cartoncino ondulato e ancora con carta plastificata».

 

 

Anche le immagini scelte per illustrare le confezioni giocano un ruolo importante e spesso – come già rilevato da Il fatto alimentare – sono poco aderenti alla realtà: «gli esperti di food styling ricorrono a diversi trucchi, dalle gocce di deodorante per simulare la rugiada su frutta e verdura alla lacca per capelli usata per lucidare», spiega la ricercatrice. A questo si aggiungono le manipolazioni per rendere gli alimenti più appetibili ritoccando le immagini – aumentando, le dosi di condimento, o aggiungendo elementi non presenti nella confezione, per esempio verdura o frutta fresca precisando che si tratta di “suggerimenti di presentazione”.

 

Un ruolo simile gioca l’impiego di immagini accattivanti che suggeriscano naturalezza: «molte confezioni di pizza surgelata riportano l’immagine di fiordilatte fresco e grondante latte, quando è probabile che il prodotto utilizzato sia fiordilatte in panetto», spiega Lopez. Lo stesso vale per l’uso termini come “made in italy” o “100% italiano” «che giocano sul fatto che l’origine italiana abbia per i consumatori un rilevante valore aggiunto, anche se da sola – conclude la ricercatrice – non basta a garantire un prodotto di qualità».

Per capire cosa in particolare attira l’attenzione del consumatore in una confezione di cibo, la giovane ricercatrice ha utilizzato l’eye tracker, uno strumento che permette di seguire lo sguardo grazie a un dispositivo a infrarossi nascosto all’interno di un monitor. In questo modo si può valutare l’interesse per i diversi contenuti di un messaggio e il modo in cui vengono analizzati.

 

Nel caso preso in esame, si trattava di bastoncini di pesce surgelati di marche diverse, un brand popolare come Capitan Findus, una private label (Conad) e una marca meno nota, Selex.  Si è visto così che le immagini sull’etichetta di Findus attirano l’attenzione più a lungo rispetto a Conad e Selex, forse perché già conosciuti. Anche la posizione delle diciture gioca un ruolo importante: Findus mette la data di scadenza in alto a sinistra, nel punto in cui abitualmente lo sguardo comincia ad esaminare la confezione. È vero che il dato attira subito l’attenzione ma per poco tempo, forse per una fiducia nei confronti del marchio.

 

La tesi evidenzia come per verificare altre diciture come le informazioni nutrizionali i consumatori dedicano più tempo alle marche meno note «anche se il loro comportamento, ancora una volta, è influenzato dal posizionamento e dallo spazio dedicato sulla confezione».

 

Paola Emilia Cicerone

Foto: Photos.com

 

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