Tre settimane dopo l’entrata in vigore della legge che impone dal 19 aprile 2017 l’indicazione obbligatoria dell’origine del latte a lunga conservazione (UHT) e di quello usato per i formaggi confezionati, siamo andati a vedere cosa c’è sugli scaffali. Anche se le aziende hanno 180 giorni di tempo dalla data di pubblicazione della norma per mettersi in regola, buona parte delle etichette riporta già il luogo di mungitura e quello di trasformazione (o condizionamento, per il latte UHT), o fa riferimento all’origine, quando i due processi sono svolti nello stesso Paese.
Cominciamo con il latte UHT che si può conservare in dispensa per mesi e per questo motivo è molto venduto, anche se sapore e ricchezza nutrizionale non sono certo paragonabili a quelli del prodotto fresco.
Il latte a lunga conservazione dei marchi Parmalat e Giglio proviene da Paesi dell’Unione Europea. Granarolo, invece, propone due linee facilmente distinguibili dalla confezione di forma diversa (come si può vedere nella foto sotto) e in cui è presente, oppure no, la dicitura ‘latte italiano’. In questo caso è latte nazionale, altrimenti proviene da Paesi UE. Due linee diverse anche per il latte a marchio Despar. In entrambi i casi quello italiano è un po’ più caro. L’UHT Esselunga, invece, è tutto nazionale, come quello Coop (tranne il latte UHT biologico della linea Viviverde, munto e confezionato in Austria). Italiano anche il latte a marchio Conad, come pure Sterilgarda e Mila.
“Per noi l’italianità è un valore – spiega Vittorio Zambrini, direttore qualità, innovazione, sicurezza e ambiente di Granarolo – la nostra è un’azienda a base cooperativa che privilegia la produzione degli associati, distribuiti in 12 regioni d’Italia. Questa scelta viene messa in evidenza sull’etichetta, ma non sempre è possibile, perché il latte nazionale copre circa due terzi del fabbisogno, mentre il resto deve essere importato.” Secondo Granarolo “Il latte di prossimità ha un valore, perché è più fresco – racconta Zambrini – quindi è venduto come latte fresco oppure utilizzato per produrre formaggi DOP. La materia prima importata di solito viene miscelata con quella italiana e venduta come UHT, prodotto in cui la leva ‘prezzo’ è importante”.
Veniamo ai formaggi: il 31% della spesa degli italiani è destinata a formaggi duri (soprattutto Grana Padano e Parmigiano Reggiano), il 29% a quelli freschi (fra i quali dominano ricotta e mozzarella), il 17% ai formaggi molli (come Gorgonzola e crescenza), il 12% ai semiduri (il formaggio coi buchi, provolone e Asiago), infine l’11% a quelli industriali (al primo posto le sottilette). I formaggi DOP – 49 in Italia – come Parmigiano Reggiano, Grana Padano, ma anche Pecorino Romano o Gorgonzola seguono dei precisi disciplinari e sono preparati con latte italiano, prodotto in aree geografiche specifiche. I formaggi molli più diffusi, come stracchino, certosa, ricotta e mozzarella, possono invece essere fatti con latte diverso, a seconda delle scelte dell’azienda produttrice. La maggior parte della ricotta – fra cui Santa Lucia, Granarolo, Vallelata, Esselunga e Pam – è ottenuta con materia prima di provenienza UE. Il latte italiano viene utilizzato per i prodotti a marchio Despar e Coop, tranne che per la ricotta biologica, preparata con siero di latte austriaco e tedesco.
Abbiamo chiesto a Renata Pascarelli, direttore qualità di Coop Italia, i motivi di questa scelta: “Coop privilegia aziende italiane e materia prima nazionale, ogni volta che questo è possibile, considerando disponibilità, qualità, prestazioni e prezzo. Il latte UHT della linea Viviverde (da agricoltura biologica) è importato dall’Austria e anche la ricotta della stessa linea è prodotta con siero proveniente da Germania e Austria perché la disponibilità di prodotto biologico italiano è limitata. In questi anni però sta aumentando e proprio adesso è in corso il passaggio, per la ricotta, alla materia prima italiana”. Evidentemente la trasparenza “muove” il mercato e spinge i produttori a orientarsi verso la produzione biologica, più costosa e impegnativa, ma anche più remunerativa.
Stracchino e crescenza a marchio Despar, Coop, Esselunga, Granarolo, Invernizzi e Nonno Nanni sono ottenuti con latte nazionale; materia prima UE invece per la Certosa Galbani. I formaggi semiduri, come il Galbanino, e il Filoncino Parmareggio, e quelli venduti a fette, sono spesso fatti con latte UE. I formaggi con i buchi provengono in buona parte da Francia o Germania. Veniamo ora alla mozzarella, simbolo di italianità: latte italiano per Granarolo, Brimi, Despar, Esselunga e Coop; materia prima UE per Vallelata, Santa Lucia, Invernizzi e Pam.
In Italia nel 2016 sono state munte e consegnate alle latterie 11,5 milioni di tonnellate di latte, 2,5 dei quali destinati al consumo alimentare, mentre il resto è in gran parte utilizzato per la produzione di un milione di tonnellate formaggi, oltre il 40% dei quali DOP. Nello stesso anno l’import, in calo da diversi anni, ha riguardato 1,3 milioni di tonnellate di latte sfuso, principalmente da Germania, Francia, Slovenia e Austria. Questo latte viene utilizzato in buona parte per la produzione di formaggi freschi (non DOP), come nel caso di Vallelata, Galbani, Santa Lucia e Invernizzi (tutti marchi del gruppo francese Lactalis), che impiegano in gran parte latte di provenienza UE.
Un problema che colpisce ciclicamente il latte prodotto nel nostro Paese è quello delle aflatossine presenti nel mais usato per nutrire le vacche che in alcuni casi possono passare nel latte. Secondo alcuni produttori il latte proveniente dal Nord Europa o dall’Europa dell’Est, risulta più sicuro perché il clima non favorisce lo sviluppo di queste tossine. In realtà i controlli in Italia sono molto frequenti, a tutti i livelli della filiera.
“Il problema delle aflatossine – dice Zambrini – esiste e sarà sempre più grave. È legato alle condizioni climatiche. Una volta un problema era tipico delle zone tropicali, adesso la questione sta risalendo sempre più verso il nord. Per garantire la conformità agli stringenti requisiti di legge i controlli vengono fatti su tutte le cisterne e c’è anche un importante lavoro di verifica e formazione a livello di stalla.”
La normativa non prevede l’obbligo di origine per i formaggi trasformati (come creme e sottilette) e nemmeno quando il formaggio è un ingrediente, come nel caso delle pizze pronte. Questi dati, però, sono disponibili per i prodotti a marchio Coop sul sito da circa quattro anni grazie al progetto ‘Origini trasparenti’. “È una scelta impegnativa e faticosa – dice Pascarelli – ma riteniamo che sia corretto rendere disponibili queste informazioni, specificando sia la provenienza delle materie prime sia il Paese di produzione”.
Collegandoci al sito Coop allora si vede che la mozzarella a marchio è prodotta con latte italiano, mentre nei tramezzini, nelle pizze e negli hamburger sempre marchiati Coop si usa mozzarella importata da Paesi come Germania, Danimarca, Regno Unito, Repubblica Ceca e Polonia. Come mai? “Stiamo dedicando una maggior attenzione ai prodotti venduti tal quali – dice Pascarelli – Negli elaborati si valuta di volta in volta, considerando qualità, aspetti sanitari e prezzo. Vogliamo difendere il potere d’acquisto dei consumatori, ma se la materia prima non fosse adeguata, la cambieremmo.”
L’indicazione d’origine del latte è ormai una realtà e questo permette di fare scelte più consapevoli e di capire qualcosa di più dei processi produttivi. Possiamo così privilegiare la produzione nazionale e favorire la nostra economia, ma questo non sempre è possibile perché una parte della materia prima deve essere importata. Questo però non vuol dire che il latte tedesco o austriaco siano di minor qualità.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.
interessante. ecco perchè da poco mi sono accorto della dicitura nel latte parmalat UE e non Italia. Io vedo che il prezzo è quasi lo stesso e molte volte cerco quello ITA .
Grazie interessante articolo io leggo x abitudine le etichette tra i marchi non ho trovato TREVALLI il cui latte è nazionale e dico di più il latte fresco QM proviene esclusivamente dalle fattorie della nostra regione.
Io compro da molto tempo un latte prodotto da una cooperativa della Sardegna .credo nelle piccole aziende . Latte Arborea. Solo latte italiano da allevamenti della Sardegna.
“Per noi l’italianità è un valore – spiega Vittorio Zambrini, direttore qualità, innovazione, sicurezza e ambiente di Granarolo – la nostra è un’azienda a base cooperativa che privilegia la produzione degli associati, distribuiti in 12 regioni d’Italia. Questa scelta viene messa in evidenza sull’etichetta, ma non sempre è possibile, perché il latte nazionale copre circa due terzi del fabbisogno, mentre il resto deve essere importato.”
Una fotografia della realtà italiana, dove distruggendo le stalle e la produzione di latte italiano, grano italiano, allevamenti italiani, i trasformatori devono acquistare all’estero il fabbisogno interno.
E’ una vergogna tutta nostra, causata prima di tutto dalla filiera commerciale della GDO, che ha soffocato i produttori nostrani con prezzi da fame, ma ora che va di moda si scopre che il Made in Italy è insufficiente.
Politiche commerciali dannose senza lungimiranza, che hanno creato solo miseria e rovine della nostra filiera, con cessioni dei nostri marchi più importanti ad aziende estere, prima Nestlé ora Lactalis.
Ci voleva la presa di coscienza popolare con la domanda di Made in Italy 100%, per svegliare i nostri commerciali ed il nostro Ministero, per riorientare la filiera ed il mercato nostrano di latticini, grano derivati e salumi nostrani.
Difendiamo l’economia agroindustriale italiana, ma a partire dalle stalle e dai nostri campi, senza che sia solo una moda passeggera ma una scelta strategica di lungo periodo, con valore aggiunto per tutti e futuro per i nostri ragazzi.
Concordo completamente
Solo ora, dopo anni e anni vi accorgete che la GDO, di qualsiasi colore politico COOperativo e non politico, spingendo oltre misura i prodotti a marchio (ognuno faccia il suo mestiere, chi di produrre e chi di vendere) e strozzando le aziende produttrici, grandi e piccole, e togliendo loro in nome di una falsa difesa dei consumatori, l’ossigeno ed i margini per un sano sviluppo e addirittura per un sufficiente progresso tecnologico a causa di mancati investimenti per scarse risorse.
Ci si meraviglia per l’utilizzo di latte comunitario del Nord Europa: ma lo sapete che le aziende agricole di quei paesi hanno investito da tanti anni onestamente ed oculatamente in tecnologia e tecniche agricole ed energetiche d’avanguardia i fondi comunitari, a differenza di molti italiani che tanto chiacchierano e si lamentano ma che sono rimasti a dimensioni e costi produttivi decisamente più alti per una qualità dimostrabilmente inferiore (basta calcolare comparativamente la qualità igienica alla stalla e le rese in formaggio del latte italiano e di quello della Germania, della Francia , Austria etc.) Se poi il latte manca e ci si rivolge ad un latte comunitario migliore si grida allo scandalo e si dà credito alle bufale coldirettiane del “latte in polvere”. Come se non si sapesse che tale utilizzo non conviene a nessuno. Angelo Zambrini ve lo ha detto fra le righe. Vi ha detto che Granarolo, come cooperativa ha il dovere aziendale di prediligere il latte dei suoi soci e di retribuirli al massimo e lo dedica al mercato del latte fresco e Biologico, più remunerativi, ma nessuna vergogna ad utilizzare anche latte comunitario per UHT ed altri prodotti, ché la qualità non ne risente affatto a dispetto di chi racconta balle ai consumatori ignari, anzi, i costi talvolta possono diminuire, a favore anche dei consumatori (purché la GDO non ne azzeri i margini). Quanto alle aflatossine è noto da decenni che per ragioni climatiche da noi i raccolti di mais sono più esposti alle infestazioni fungine molto più che nel centro-nord Europa, ed anche che gli agricoltori nostrani stentano a resistere all’acquisto di granella di mais di qualità “incerta” a prezzi stracciati, o a scartare alcune parti inquinate del silomais con rischi sulla salute degli animali e sulla salubrità del latte e derivati . Cosa che sopra le alpi non esiste.
Grazie mille, informazioni interessantissime. E senza inutili ipocrisie
Finalmente qualche neurone incomincia a funzionare!!!
Mi piace l’idea di Maria, ma penso che i nostri politici decisori abbiano avuto neuroni molto funzionanti e collegati con i loro gruppi neuronali preferiti, ma purtroppo scollegati dal sentimento e l’interesse di quasi tutti gli italiani.
Non vedo nessun elenco di prodotti trattati nei Discount, che latte utilizzano queste catene, qualcuno mi sa rispondere?