Due ricercatori confermano che la certificazione dell’olio di palma non garantisce la ‘sostenibilità ambientale’. Un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment mostra – con un’analisi delle immagini satellitari – che le concessioni certificate e le aree dedicate alla coltivazione di palma da olio, negli ultimi decenni hanno sostituito l’habitat dei mammiferi in via di estinzione e le foreste tropicali di Sumatra e Borneo. Il lavoro, intitolato “L’olio di palma ‘sostenibile’ certificato ha occupato l’habitat delle foreste tropicali dei grandi mammiferi in via di estinzione negli ultimi 30 anni nelle isole del Borneo e di Sumatra”, è stato condotto da Roberto Cazzolla Gatti, docente presso la Tomsk State University in Russia e research fellow presso il Konrad Lorenz Institute for Evolution and Cognition Research in Austria, insieme alla biologa russa Alena Velichevskaya.
Negli ultimi anni è cresciuta la preoccupazione per quanto riguarda la ‘sostenibilità’ dell’olio di palma in termini di impatto sull’ambiente. Le parti interessate (industria, produttori, rivenditori, banche, investitori e alcune Ong che si battono sui temi ambientali) hanno formato nel 2004 la Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile (Rspo) con “l’obiettivo di promuovere la crescita e utilizzo di prodotti di palma da olio sostenibili attraverso standard globali credibili”. Secondo alcuni questa certificazione ha ridotto significativamente la deforestazione nelle piantagioni dei membri Rspo. In realtà ulteriori analisi attestano che l’olio di palma certificato non è così sostenibile come si crede. Questo accade perché la deforestazione è stata valutata su territori di piantagioni certificate, che contenevano già poche foreste. Operando in aree fortemente danneggiate, se non si tiene conto dei recenti cambiamenti fondiari, la certificazione della concessione appare positiva per l’ambiente.
“Nel nostro precedente studio del 2019 – ha dichiarato Roberto Cazzolla Gatti – avevamo già suggerito che le concessioni certificate non differiscono molto da quelle non certificate. Il nuovo studio, condotto con un’analisi temporale delle immagini rilevata nel periodo (1984-2020), ha evidenziato che la maggior parte delle concessioni attualmente certificate a Sumatra e Borneo si trovano nell’habitat dei grandi mammiferi degli anni ’90 e in aree che erano foreste tropicali meno di 30 anni fa. Questa volta abbiamo aumentato il dettaglio della ricerca, allargando le serie temporali agli ultimi 36 anni e adottando un’analisi diretta ad alta risoluzione delle immagini satellitari. Il sistema ha permesso di valutare l’impatto dell’espansione della palma da olio sull’habitat dei mammiferi minacciati come oranghi, rinoceronti, tigri ed elefanti in via di estinzione per via della deforestazione”.
“Suggeriamo – prosegue Cazzolla Gatti – che la parola ‘olio di palma sostenibile’ non debba più essere usata per rendere più verde la reputazione di questo prodotto tropicale. L’attuale domanda di olio di palma certificata è quasi interamente soddisfatta da concessioni che, in meno di tre decenni, hanno sostituito alcune foreste tropicali considerate habitat di grandi mammiferi”.
Lo studio dimostra che le certificazioni si qualificano come sostenibili perché trascurano un passato molto recente di deforestazione e degrado degli habitat. Gli autori hanno stimato che, nel Borneo e a Sumatra, più del 75% delle attuali concessioni dei membri Rspo ha preso il posto di habitat che negli anni ’90 erano aree dove vivevano grandi specie di mammiferi in via di estinzione. Delle attuali 27 basi di approvvigionamento certificate Rspo nel Borneo indonesiano (Kalimantan), 23 si trovano in un’area che era l’habitat degli oranghi fino al 1999. C’è di più, tre aree certificate Rspo erano completamente coperte da foreste tropicali fino al 2003-2008 prima di essere rapidamente disboscate, trasformate in piantagioni di palma da olio e quindi certificate come ‘sostenibili’. A Sumatra, gli autori hanno rilevato che delle attuali 51 aree di rifornimento certificate Rspo, nove si trovano nell’habitat degli elefanti di Sumatra dal 1985, 11 nell’habitat della tigre di Sumatra 1990 e tre in quello del rinoceronte di Sumatra 1991. Inoltre, delle attuali 173 concessioni certificate Rspo nel Borneo malese, 131 si trovano in un’area che era l’habitat degli oranghi fino al 1989 e 35 in aree considerato habitat fino al 1999.
“Abbiamo scoperto – ha affermato Cazzolla Gatti – che circa la metà delle aree di approvvigionamento certificate di Sumatra e la quasi totalità di quelle del Borneo erano completamente coperte da foreste tropicali ancora negli anni ’80, prima di essere convertite in piantagioni di palma da olio dagli anni ’90 e, quindi, ricevere l’etichetta di ‘sostenibilità’ negli anni 2000”.
“Sembra privo di significato – sottolineano gli autori – etichettare come ‘sostenibile’ una piantagione solo considerando la situazione al momento della certificazione, ignorando gli impatti recenti sulla fauna e sull’ambiente. In questo modo, ogni area che era una foresta solo ieri e che viene disboscata oggi, può diventare una piantagione sostenibile domani o dopodomani “.
“La ‘sostenibilità’ dell’olio di palma, alla luce dei risultati che abbiamo evidenziato nel 2019 e confermato adesso con questo nuovo studio, sembra un’illusione che potrebbe facilitare l’espansione delle piantagioni di palma da olio in tutto il mondo tropicale e il suo commercio globale”.
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giornalista redazione Il Fatto Alimentare
Stesso metodo usato per asserire che il bio è sostenibile: basta usare il modello sbagliato (o quello che fa comodo).
Usare le parole come “idoli” è una abitudine che viene da lontano , molto in voga anche nella società attuale che ha bisogno di slogan veloci ( una parola per intendere concetti che ne richiederebbero mille) e indeterminati da sventolare come bandierine per permettere generalmente a qualcuno di farsi gli affari propri a discapito di qualcun altro e spesso a danno dell’ambiente.
Prendiamo quindi la “sostenibilità” , una certa cosa o pratica è sostenibile sul campo se un determinato numero di nostri pronipoti tra cent’anni avrà a disposizioni le stesse potenzialità attuali, per questo io ritengo che debba essere privilegiata la biodiversità e non le monocolture , e soprattutto vada evitato l’avvelenamento dell’ambiente nel suo insieme diversamente gli stessi pronipoti dovranno inventarsi altro per mangiare cibo quasi sano come noi ora.
Le tentate invenzioni sono già realtà in corso d’opera ma sono una scommessa incerta per alcuni aspetti fondamentali.
Il mondo è un ambiente chiuso e con risorse ingenti ma limitate e anche se non sappiamo ancora quale è il limite di popolazione eppure un limite esiste, non sappiamo ma esiste un limite alle quantità di pesticidi sopportabili dall’ambiente complesso per lo scopo stabilito, esiste un limite agli appetiti delle multinazionali e alla sopportazione delle popolazioni locali sfruttate e/o sfrattate per compiacere qualche potente congregazione e fornire leccornie ad alcune categorie privilegiate di consumatori.
Quindi non esiste sostenibilità vera in nessun sistema di coltivazione se non ci sarà cambio di condizioni in generale e a gestire il complesso sistema umano saranno affaristi vecchi e nuovi.
La debolezza dei ragionamenti evidenziata nel precedente commento del signor Gozzi è vera perchè tutte le situazioni prese ad esempio sia pro che contro sono umanamente contraddittorie e il finale cambia a seconda del singolo punto di vista.
Ma un modello diffuso di coltivazione prevalentemente biologica in ogni territorio e consumatori più attenti alla salute e all’ambiente circostante sono per me l’unico orizzonte auspicabile , la sostenibilità economica attualmente intesa è una visione miope e parziale che dimostrerà i suoi limiti solo quando sarà superato il limite di avvelenamento irreversibile.
In più il consumatore viene invogliato con prezzi bassi delle derrate indispensabili a sopportare le storture sociali globali a suo danno e a vantaggio solo di alcune categorie elitarie. Utopia?!!