Verità e menzogne sulla sostenibilità dell’olio di palma e sulla sua validità come biocarburante
- Boicottare l’olio di palma significherebbe spostare l’intera domanda globale (60 milioni di tonnellate) verso altri oli e dunque usare molta più terra per soddisfare tale domanda (Danielle Morley, European director of outreach & engagement, Rspo – Roundtable for sustainable palm oil, pubblicato sulla pagina.
Falso. Almeno per quanto riguarda l’Italia. Se analizziamo la produzione italiana di oli vegetali e le importazioni di olio di palma (dati ufficiali Fao riportati nella figura 3-A) a partire dal 2005 l’aumento delle importazioni di quest’ultimo corrisponde quasi esattamente al calo di produzione olearia nazionale (tutti gli oli vegetali accorpati). Pertanto non è vero che dobbiamo importare olio di palma perché non abbiamo terra sufficiente per produrre l’olio necessario alla nostra industria. Semplicemente quest’ultima segue le leggi del mercato: compra l’olio più economico, o conveniente in un dato momento, perché prodotto in Paesi dove le aziende hanno meno pressione fiscale (o evadono più facilmente), inquinano impunemente e pagano stipendi irrisori comparati con quelli europei.
A completamento della figura 3-A, includiamo anche nella figura 3-B riguardante l’andamento della superficie coltivata in Italia a scopo di produzione olearia (totale delle coltivazioni di oliva, soia, girasole e altre oleaginose). Si osserva come negli ultimi dieci anni la superficie coltivata totale oscilli fra i 1.400.000 ha ed i 1.500.000 ha.
Figura 3-A: dati ufficiali della produzione italiana degli oli vegetali (accorpati: oliva, soia, girasole, ecc.) comparati con le importazioni di olio di palma
(Fonte © Fao, elaborazioni dell’autore)
Figura 3-B: dati ufficiali della superficie totale coltivata in Italia per la produzione di oli vegetali (accorpati: oliva, soia, girasole, ecc.)
(Fonte © Fao, elaborazioni dell’autore)
- L’energia prodotta con olio di palma è pulita perché si tratta di un bioliquido sostenibile (rapporto 2014 del Gse sulla produzione di energia rinnovabile).
Vero. Ma solo perché definito piuttosto arbitrariamente dal D.Lgs. 31 marzo 2011, n.55, allegato V-bis (il quale adotta i medesimi criteri della Direttiva 2009/28/Ce). Applicando i coefficienti di emissioni di gas serra contenuti nell’allegato in questione, la combustione dell’olio di palma comporterebbe un risparmio netto di emissioni di CO2. La sostenibilità dei bioliquidi è materia ingarbugliatissima, come potrà verificare il lettore visitando la pagina del ministero dell’Ambiente.
Come diceva Tacito: “Corruptissima re pubblica, plurimae leges”. Pagando gli incentivi alle multinazionali per produrre “energia sostenibile per decreto”, da semplici cittadini, le obiezioni che possiamo addurre alla suddetta metodologia sono le seguenti:
• La metodologia più accreditata per la valutazione della sostenibilità di un processo è la Lca (Life cycle analysis), di gran lunga più completa della semplice analisi delle emissioni di CO2 adottata dal legislatore europeo.
• L’allegato V-bis solo considera il bilancio di emissioni di gas climalteranti e “premia” l’utilizzo di terreni che al 2008 erano “incolti”. Dobbiamo dunque intendere che l’abbattimento di una foresta tropicale, in quanto “terreno incolto”, è premiato dal legislatore?
• La produzione di olio di palma ha importanti impatti inquinanti sui corpi idrici nei Paesi produttori. Ogni tonnellata di frutti di palma genera circa 0,5 m3 di acque di vegetazione, le quali sono acide (pH=4,7) e molto cariche di materia organica (21.500 mg/l < COD < 30.500 mg/l). Nei Paesi produttori di olio di palma raramente vengono attuate misure per il trattamento delle acque. Il criterio di calcolo dell’impatto ambientale da parte del legislatore europeo sembra truffaldino o quantomeno superficiale: le emissioni di CO2 imputabili all’inquinamento idrico non non sono state considerate.
• Non è data una definizione di “biodiesel” nella norma. Esistono diversi modi per produrre biodiesel: per esterificazione acida, per transesterificazione alcalina, per combinazione dei due precedenti, per transesterificazione con cosolvente, o con enzimi, per idrogenazione (processo attuato dall’Eni nell’impianto Green refinery di Marghera). Tenuto conto dell’enorme differenza fra i diversi processi di produzione del biodiesel, la tabella A dell’allegato V-bis ci appare quanto meno pressapochista, perché considera le emissioni di CO2 corrispondenti alla coltivazione della specie vegetale dalla quale si ricava l’olio, ma non quelle del processo di produzione del biodiesel.
• La tabella A dell’Allegato V-Bis , di cui riportiamo uno stralcio, indica le emissioni di CO2 dei vari oli. In termini di emissioni osserviamo che quello di palma non è affatto il migliore, essendo da preferire l’utilizzo di olio esausto e grassi animali di scarto. Inoltre sembra molto premiato un processo definito “biodiesel da olio di palma (processo con cattura di metano all’oleificio)” del quale non ci sono specifiche nel decreto in questione, né nella direttiva europea.
Stralcio della tabella A dell’Allegato V-bis del D.Lgs. 31 marzo 2011, n. 55
(*) Escluso l’olio animale prodotto a partire da sottoprodotti di origine animale classificati come materiali di categoria 3 in conformità del Regolamento (Ce) n.1774/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 ottobre 2002, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano
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Si ritiene che l’olio di palma sia tra i prodotti di base più economici per la produzione di biodiesel di buona qualità (rapporto del Politecnico di Milano all’Autorità dell’energia).
Vero a metà per i seguenti motivi:
• Il biodiesel prodotto mediante la transesterificazione dell’olio di palma puro non raggiunge alcuni dei parametri di qualità richiesti dalla normativa europea, la quale è stata redatta in base alle caratteristiche del biodiesel prodotto con olio di colza. In particolare il parametro CFPP (cold filter plugging point, cioè la temperatura alla quale il biodiesel non riesce più a passare attraverso un filtro di 40 µm) è pari a -10ºC nel caso del biodiesel da colza, mentre i biodiesel da palma, o da strutto bovino (molto simili fra di loro) hanno un CFPP pari a 16ºC (fonte confermata da prove fatte dallo stesso autore). Ciò vuol dire che questi ultimi non possono essere utilizzati d’inverno, pena problemi al motore. L’autore può confermare il dato avendo condotto un test durato due anni, circolando con un furgone diesel alimentato con miscele contenenti fino al 20% di biodiesel, autoprodotto a partire da oli e grassi esausti e miscele di oli di semi vari. D’inverno il biodiesel di palma formava un gel ed era impossibile versarlo nel serbatoio del veicolo, d’estate era comunque molto più viscoso degli altri biodiesel.
• Secondo il rapporto suddetto, l’olio di palma costa sui 500 euro/ton. L’olio esausto da riciclaggio costa più o meno lo stesso (secondo il rapporto L’Italia del riciclo 2015. Capitolo 14 “Oli e grassi animali e vegetali esausti”) ed è più sostenibile perché non sottrae risorse all’agricoltura. Secondo quest’ultimo rapporto esiste ancora margine per abbassare il prezzo dell’olio da riciclaggio: basterebbe eliminare alcune barriere burocratiche.
• Il grasso animale di Categoria I (estratto dalle carcasse di animali morti negli allevamenti, o durante il trasporto, mediante il processo detto rendering ) è molto simile all’olio di palma, ma costa ancora di meno: sui 300-400 euro/ton (dati di un produttore spagnolo). Orbene, l’emergenza “mucca pazza” è rientrata da anni, la combustione di biodiesel da grasso animale di Categoria I non presenta alcun rischio di propagazione dei prioni, ed il suo impatto ambientale è esattamente uguale a quello di qualsiasi altro olio o grasso. Nonostante ciò, l’euroburocrazia pone ancora forti limitazioni all’impiego di sottoprodotti di Categoria I, ad esclusivo beneficio dei cementifici ed inceneritori di rifiuti, i quali sottraggono le corrispondenti emissioni di CO2 dai limiti imposti dal Protocollo di Kyoto e bruciano un combustibile, appunto il grasso da rendering, di qualità comparabile a quella del petrolio ma ad un prezzo molto più basso. - In Indonesia e Malesia, oltre 4,5 milioni di persone lavorano nella produzione di olio di palma. Fermare la produzione andrebbe a creare grossi problemi a questa gente e alle loro famiglie (pubblicato in inglese nel sito del Rspo).
- Forse vero. L’Rspo non cita le fonti statistiche ufficiali, ma è un’affermazione palesemente di parte. Ancora è presto per fare predizioni, ma non c’è dubbio che perderemo migliaia di posti di lavoro in Italia per le importazioni di olio di oliva tunisino esenti da dazi, decise dall’Ue e passivamente accettate dal governo Renzi. Considerando che le importazioni di olio tunisino in tutto il territorio Ue sono appena il 5,7 % delle importazioni italiane di olio di palma, è palese il danno che quest’ultimo sta creando all’agricoltura italiana. L’autore ha interpellato l’Istat, chiedendo i dati specifici sull’andamento dell’occupazione nel settore oleario italiano, senza aver ricevuto risposta a data odierna.
Conclusioni
Dall’analisi obiettiva, con dati alla mano, delle varie affermazioni a favore del concetto di “olio di palma sostenibile”, appare chiaro che si tratta di un tentativo di “green washing” delle grandi multinazionali per giustificare l’acquisto di una materia prima di infima qualità e a basso prezzo.
L’utilizzo principale dell’olio di palma in Italia è prevalentemente energetico: generazione elettrica in grosse centrali di cogenerazione industriale, seguita dalla produzione di biocarburanti per autotrazione. Tale domanda potrebbe perfettamente essere soddisfatta con grassi animali di recupero e oli vegetali esausti riciclati, riconosciuti come i bioliquidi più sostenibili dal D.Lgs. 31 marzo 2011, n.55, ma la cui raccolta e commercializzazione sono ostacolate dalla burocrazia e dalle interpretazioni aberranti, proprie della nostra casta politica, del concetto giuridico di “rifiuto”.
Ricordiamo infine che il basso prezzo dell’olio di palma non è frutto della sua maggiore sostenibilità, bensì del fatto che in Indonesia e Malesia gli stipendi dei lavoratori agricoli sono irrisori, l’evasione fiscale dei grandi gruppi industriali è garantita da condoni fiscali da parte di politici compiacenti.
Intanto e aziende italiane si vedono penalizzate da un fisco iniquo e da una burocrazia asfissiante. Per citare Cicerone: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” Rimpiazzi il Lettore “Catilina” con il nome del politico o della multinazionale che preferisce: a distanza di oltre 2mila anni sono cambiate solo le tecnologie e i mezzi di propaganda, ma la natura del potere è rimasta invariata.
Non credevo s’utilizzassero a fini energetici persino i grassi d’origine animale “estratti dalle carcasse di animali morti mediante il processo detto rendering”, come documenta l’estensore di questo articolo.
Un dubbio allora s’insinua in me sui casi “mucca pazza”, febbre aviaria, lingue blu, ecc. già fonte di forti sospetti sulle loro cause reali: non si sarà trattato d’una mattanza “indotta”, di un’aberrante invenzione volta a ricavare materia prima a buon mercato dall’eccedenza di milioni di carcasse, per gli scopi di cui sopra? Un’ipotesi da film horror. Ma è comunque tragico dover constatare, in assenza di politiche alternative o d’una seria opposizione al delirio dei gruppi di potere, come la macchina divoratrice d’energia e produttrice di miseria globale creata dalla schizofrenia statunitense ed occidentale faccia scempio del buon senso, della Civiltà e del destino d’intere popolazioni spianando la strada alla barbarie collettiva.
E non è detto che ecceda in pessimismo o in tasso alcolico il prof. Latouche quando, in un suo libro recente, scrive che all’interno di organizzazioni semi segrete si sostiene molto seriamente “la necessità di riportare la popolazione mondiale a non più di 600 milioni d’abitanti, quantità compatibile con la sopravvivenza della biosfera e il mantenimento dei propri privilegi”.
Lei che ne pensa, ing. Rosato?
Claudio Buttura
G.mo sig. Buttura,
Mi sento di rassicurarLa sul fatto che gli animali non vengono macellati apposta per fare biocarburanti. Il processo di rendering si applica alle carcasse categoria I (cioè animali morti spontaneamente, solitamente per infarto o malformazioni congenite, ma non per malattie) e categoria II (resi da macello non utilizzabili per alimentazione umana o animale). Gli animali morti di malattie vengono inceneriti per evitare contagi. Comunque sia, il grasso ricavato mediante rendering ha due qualità: quello bianco e quello giallo. Entrambe vengono utilizzate perlopiù nella produzione di saponi e prodotti simili, raramente o solo in piccole quantità per la produzione di biodiesel. La vera aberrazione è il fatto la lobby tedesca dell’automobile ha fatto in modo che solo sia “a norma” il biodiesel da olio di colza, perché la sua bassa viscosità non richiede modifiche agli iniettori standard per gasolio. L’olio di colza però è ricco di omega 3, e sarebbe più giusto utilizzarlo per alimentazione.
Rispetto alla “teoria del genocidio globale”, ricordo che arrivando ai dessert dopo una cena di gala alla fine di un congresso scientifico, un ricercatore della NASA, un po’ alticcio, mi raccontò che uno dei tanti scenari che simulano i “think tank” è proprio quello della riduzione drastica della popolazione a seguito di azioni di guerra batteriologica, nucleare e altro. Quanto sia attendibile l’affermazione di un ricercatore di secondo livello, non certo uno del Pentagono, addirittura un poco ubriaco dopo una lauta cena, onestamente, non lo so. Come direbbe mia nonna “se non è vero, è ben trovato”.
Ottimo ed approfondito studio, che svela tutti gli aspetti legati all’uso di questo grasso tropicale.
Oltre l’aspetto nutrizionale di primaria importanza, condivido in modo particolare anche il danno all’agricoltura italiana, sia per la sostituzione di oli migliori, da noi coltivati per l’alimentazione, sia per quelli destinati a biocarburanti.
In definitiva questo grasso fa molti più danni sociali di quelli che il consumatore conosce ed occorre divulgare meglio e più diffusamente tutte queste informazioni al grande pubblico.
Certo, i giornalisti di regime non collaborano, ma bisogna insistere perché c’è in gioco la salute di tutti e l’economia dei più, a partire dai poveri cristi che coltivano le palme per una miseria, creando altra miseria.
G.mo sig. Ezio
La ringrazio per il commento. Non facile mantenere una posizione equilibrata quando si scrive di argomenti così delicati. Ho il privilegio di collaborare ogni tanto con due portali assolutamente INDIPENDENTI, Il Fatto Alimentare ed Agronotizie, e Le posso assicurare che non li cambierei mai, nemmeno per una collaborazione fissa con le testate “di regime”. Allo stesso tempo, assisto con rammarico alla diffusione di falsità e “teorie delle cospirazioni” prive di alcun fondamento, complici Facebook e siti simili. Pertanto, la nostra missione di fornire informazione corretta e documentata, da fonti autorevoli, diventa doppiamente difficile. Non saprei dire cosa sia più pericoloso, se le informazioni diffuse dalla “democratura” attuale o le fesserie dei “cospirazionisti”. Ad ogni buon conto, a data odierna (23/05/2016) l’ISTAT non si è degnato ancora di darmi una risposta alla mia interrogazione sull’andamento dell’occupazione nel settore oleicolo italiano. Bavaglio da regime o solo ordinaria inefficienza burocratica?