Convertire un solo ettaro di foresta pluviale indonesiana a campo di palme da olio causa un rilascio di CO2 nell’atmosfera (perché non è più trattenuta dalla vegetazione e del terreno) equivalente a quello emesso da 530 persone che volano in classe economica da Ginevra a New York. Questo è uno dei confronti contenuti in uno studio appena pubblicato su Nature Climate Change dai ricercatori svizzeri del Federal Institute for Forest, Snow and Landscape Research. Gli scienziati hanno analizzato i dati raccolti per due anni dai colleghi dell’Università svedese di Gottinga nella zona centrale di Sumatra, isola dell’Indonesia, Paese che nel 2012 è stato il primo al mondo per produzione di olio di palma e che insieme alla Malesia detiene l’85% del mercato globale. Ciò che hanno scoperto mette in discussione molte delle stime fatte finora, perché l’impatto di questa pratica sarebbe assai peggiore del previsto.
Gli autori hanno infatti dimostrato che un ettaro di foresta convertito a coltivazione di palme da olio corrisponde all’emissione di 174 tonnellate di carbone in atmosfera, mentre lo stesso ettaro coltivato in modalità intensiva “emette” 159 tonnellate e in modalità estensiva 116. Le differenze dipendono in gran parte dal fatto che le piantagioni di palma hanno un elevatissimo turnover, che non permette al terreno di riprendersi. Per questo sono necessarie, tra un raccolto e il successivo, grandi quantità di fertilizzanti e di pesticidi.
Anche se in termini di pura efficienza, cioè di quantità di prodotto ottenuto, i campi di palme non sono secondi a nessuna coltura della zona, tanta redditività si paga. Dopo il raccolto, infatti, va perso il 90% degli organismi che alimentano il suolo nelle colture meno spinte, e questo si traduce in terreni poverissimi, che vanno sostenuti con crescenti quantità di prodotti chimici che peggiorano la situazione a ogni ciclo.
Gli autori hanno voluto però anche suggerire qualche soluzione praticabile. Per esempio, la deforestazione andrebbe autorizzata solo dopo aver ottenuto garanzie sul fatto che il legno venga utilizzato e non bruciato come avviene di solito (nell’edilizia o per altri scopi), dopo aver fissato limiti severi sulla quantità di biomassa da lasciare a terra come fertilizzante naturale (di solito non viene lasciato quasi nulla) e dopo aver imposto il reimpiego degli scarti delle palme come fertilizzanti.
Più a lungo termine, gli autori suggeriscono di adottare i metodi indicati da OPAL Project (da Oil Palm Adaptive Landscapes), lanciato dall’agenzia svizzera per la cooperazione internazionale, che sta studiando tutti i possibili modi per avere coltivazioni di palma da olio senza deforestare, e ha già individuato alcune zone dove sarebbe possibile farlo sia nella stessa Indonesia sia, per esempio, in Colombia, nella savana, o in Camerun, come intermezzo tra altre piantagioni esistenti.
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Giornalista scientifica
Non è la conoscenza agronomica e scientifica che manca, per una gestione sostenibile e lungimirante delle colture, ma la pressione delle lobby dei produttori sui governi e le istituzioni pubbliche.
Questi studi, anche se preziosi per la conoscenza dei fenomeni ed impatti ambientali, si spengono come fiammiferi, nel lago degli interessi in gioco di pochi ma potentissimi attori che manovrano i manovratori istituzionali.
Anche se per un breve periodo si riesce a richiamare l’attenzione e quindi la sensibilità dei consumatori verso fenomeni degradanti e produzioni discutibili, dopo qualche anno tornano gli interessi esuberanti dei soliti onnipotenti ed invasivi attori.