Il microbiota intestinale – è noto – ha un ruolo di primaria importanza nel mantenimento di un buono stato di salute. Ma quanto e in che modo il cibo lo influenzi, è materia ancora piuttosto confusa, vista la complessità del tema. Capire come migliaia di nutrienti diversi agiscano su una quantità enorme di microrganismi, in gran parte poco conosciuti quando non del tutto ignoti, non è semplice. Un passo in questa direzione lo hanno fatto i ricercatori dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, che hanno pubblicato su Gut i risultati di uno degli studi più completi mai effettuati finora. In particolare, volevano controllare se l’assunzione di alcune classi di alimenti fosse o meno associata allo sviluppo di un tipo di flora batterica più favorevole allo sviluppo di infiammazioni, e a tal fine hanno analizzato attentamente le feci di 1.425 persone, alcune delle quali sane, altre con il colon irritabile, altre con una colite ulcerosa o un morbo di Crohn (malattie infiammatorie croniche di origine autoimmune), per verificare la composizione del microbiota in relazione alla dieta. Contemporaneamente hanno controllato le abitudini alimentari dei partecipanti, raccolte in appositi questionari compilati quotidianamente. Hanno poi aggregato il cibo in 25 gruppi, misurandone la quantità assunta in grammi al giorno.
Il risultato di questi calcoli fornisce diverse indicazioni: ci sono 38 associazioni tra tipologie di cibo e gruppi di ceppi specifici, e 61 relazioni tra singolo alimento e specifico tipo di batterio. In generale, gli alimenti processati e quelli di origine animale sono associati a un incremento della presenza di specie opportunistiche come Firmicutes e Ruminococcus, note per favorire l’infiammazione mentre, al contrario, i cluster che contengono il pane e simili e i legumi sono collegati a meno microrganismi opportunisti.
Ancora: alimenti di origine vegetale e pesci sono associati a specie che tengono bassa l’infiammazione intestinale. Al consumo di noci e simili, frutta, verdura, pesce e cereali corrisponde poi una maggiore presenza di Faecalibacterium, specie nota per essere una di quelle che più sintetizzano acidi grassi a catena corta, molecole che esercitano una potente azione antinfiammatoria e protettiva nei confronti delle pareti intestinali. Anche il consumo di vino rosso mostra lo stesso tipo di associazione, mentre gli alcolici e gli zuccheri no. Per quanto riguarda i derivati del latte come lo yogurt, non a sorpresa, emerge la prevalenza di specie come Bifidobacterium, Lactobacillus, ed Enterococcus, tutte antinfiammatorie.
All’estremo opposto si trovano i cluster con gli alimenti processati, le carni, il junk food (qui sono citate, tra gli altri, le patatine fritte, la maionese e le bevande zuccherate), che in tutti risultano associate a una spiccata presenza di specie considerate non positive come Clostridium bolteae, Coprobacillus e Lachnospiraceae e che, soprattutto in assenza di fibre (spesso poco presenti nella dieta di chi predilige questi cibi), possono danneggiare la mucosa intestinale.
Le connessioni tra tipo di alimenti e tipo di batterio sono risultate molto simili in tutti i partecipanti, a prescindere che fossero o meno affetti da un’infiammazione intestinale e comunque, per ora, non sono dimostrati rapporti di causa-effetto, ma solo correlazioni, hanno precisato gli autori. Inoltre, non si può ancora dire nulla sull’influenza di eventuali cambiamenti di abitudini alimentari sul microbiota. Tuttavia, sembra chiaro che avere un’alimentazione che preveda poca carne, pochi cibi processati e molti vegetali, noci e simili e derivati fermentati del latte sia una buona idea, se lo scopo è prevenire le infiammazioni intestinali.
Una conferma degli effetti dannosi, pro-infiammatori, degli alimenti ultraprocessati giunge del resto da un altro studio, molto diverso, uscito negli stessi giorni su Science Advances. In esso ricercatori di alcune università australiane hanno dimostrato, su modelli animali, che l’assunzione di una dieta ricca di cibi ultraprocessati modifica la permeabilità delle pareti intestinali e aumenta, attraverso l’attivazione di un processo infiammatorio, il rischio di malattie renali croniche.
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Giornalista scientifica