Education of chlorella under the microscope in Lab.Da alcuni anni in molti paesi, soprattutto in Asia, si coltivano le cosiddette microalghe (che in realtà spesso sono cianobatteri) a scopi alimentari e per produrre farine proteiche da utilizzare nei mangimi per animali. In Occidente, per ora, sono usate perlopiù negli integratori. Ma le loro potenzialità sono molto maggiori, e per questo iniziano a essere condotti studi di impatto ambientale e di analisi nutrizionale, che aiutano a inquadrare il settore.

Uno di questi è stato effettuato in Germania, ed è partito da una considerazione: anche se la produzione asiatica è ormai significativa, ciò che arriva in Europa non sempre risponde agli elevati standard di purezza richiesti, perché spesso sono presenti contaminazioni di diverso tipo. Sarebbe quindi auspicabile produrle a livello nazionale o quantomeno continentale, anche per abbassare l’impatto dovuto al trasporto. Ma in Germania e in altre zone d’Europa, per ragioni climatiche e per mancanza di spazi adeguati, non è possibile coltivarle in grandi vasche all’aperto come si fa in molti paesi asiatici e africani: bisogna utilizzare bioreattori (più precisamente fotobioreattori), molto più costosi e dipendenti dall’energia elettrica. E la domanda quindi è: ha un senso? I ricercatori della Martin Luther Universität di Halle-Wittenberg ritengono di sì, come raccontano sul Journal of Applied Phycology.

Le microalghe possono essere una valida fonte alternativa di omega-3 rispetto al pesce selvaggio o di acquacoltura

Il quesito di partenza era: considerando due delle microalghe più usate (Nannochloropsis sp. Phaeodactylum tricornutum) come possibili fonti alternative di acidi grassi omega-3 essenziali per l’alimentazione umana, e cioè l’acido eicosapentanoico (EPA) e il docosaesaenoico (DHA), l’impatto ambientale (comprendente parametri quali l’eutrofizzazione delle acque, il consumo di terreni e molti altri) complessivo di una produzione in bioreattori è accettabile rispetto a quello del pesce pescato e di acquacoltura?

La risposta è stata che l’impatto è quantomeno uguale, ma spesso migliore. I ricercatori hanno infatti calcolato tutti i costi ambientali (soprattutto valutati in CO2) dalla coltivazione in bioreattori in vari scenari (vetro o plastica, tubi di due diversi diametri, tre diverse stagioni) fino a un ipotetico negozio in Germania. Questi dati sono stati poi messi a confronto con quelli presenti in letteratura relativi all’allevamento e alla pesca di alcuni dei pesci più comuni, quali il pangasio e il salmone, ottenendo risultati più che soddisfacenti. La conclusione è quindi che, anche applicando alla coltivazione di microalghe tecnologie moderne (come del resto avviene in un vero e proprio distretto dedicato a Wageningen, nei Paesi Bassi) energeticamente più onerose rispetto alle vasche all’aperto, produrre acidi grassi omega-3 in questo modo avrebbe come conseguenza un mare meno contaminato dai rifiuti dell’acquacoltura e meno impoverito dalla pesca.

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Oetzi
Oetzi
19 Luglio 2020 09:34

Proprio uguale come mangiarsi un bel pesce alla griglia…