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campiNegli Stati Uniti ci sono, al momento, 203 marchi registrati e approvati per certificare le buone pratiche associate alla filiera alimentare. Una vera pletora di denominazioni all’interno della quale si trova di tutto, dalla protezione delle foreste agli Ogm, dalla pesca sostenibile alle emissioni di CO2 e così via. Uno delle ultimi arrivati, Food Justice Certified, rappresenta  qualcosa di diverso, perché comprova il rispetto dei diritti dei lavoratori americani, troppo spesso dimenticati in patria. Analoghe certificazioni esistono per i lavoratori dei Paesi esportatori, in genere a un livello di sviluppo inferiore, come del resto accade anche in Europa e in Italia.

A raccontare la storia del marchio o, per meglio dire, dell’Agricultural Justice Projects o AJP, avviato in Florida nel 2011, è Civil Eats, in un lungo articolo che fa il punto su questi aspetti, mettendo in evidenza molte contraddizioni su cui sarebbe urgente intervenire.

Nello specifico, l’AJP richiede il rispetto di diritti elementari, ovvero orari di lavoro accettabili, malattia e maternità/paternità retribuite almeno in parte, diritto a lavorare senza rischiare di compromettere la salute per l’esposizione professionale a sostanze tossiche, sostegno per la disoccupazione (per esempio per gli incarichi stagionali) e altre istanze elementari, ma non scontate per chi lavora  nei campi.

La prima fattoria ha ricevuto il marchio nel 2014, e da allora ce ne sono state altre sei, tutte di notevoli dimensioni. Nel frattempo, gli organizzatori stanno cercando di far conoscere la certificazione  ancora sconosciuta alla stragrande maggioranza degli americani. L’intento è di aumentare la consapevolezza dell’opinione pubblica sulla necessità di migliorare la situazione dei lavoratori. Stando ai dati la situazione non è proprio ottimale. Nel 2017 il settore agricolo si posiziona al secondo posto per decessi causati da incidenti con camion (260 morti), e si stima che 20 mila persone si siano ammalate per intossicazioni acute da pesticidi. C’è poi il problema delle condizioni miserabili in cui vivono molte persone, di vari tipi di racket, di migliaia di immigrati clandestini privi di qualunque diritto che lavorano nei campi (come succede in Italia) o in ristoranti.

food justice certified marchioAl di là della certificazione – ha sottolineato Leah Cohen, general manager di AJP, cui ha dato vita quando, girando il Paese su un camper offrendo assistenza dentistica gratuita a persone indigenti – il progetto spera di stimolare una discussione sui diritti dei lavoratori del settore alimentare e sulla necessità di giungere a livelli minimi di tutela. L’intento è di influenzare sempre di più le scelte di grandi marchi soprattutto del biologico come Whole Foods, o di altri come Patagonia che, pur non producendo cibo, cercano di associare il proprio nome alla sostenibilità. In effetti proprio nei piani di alcuni di questi marchi globali si segnalano diversi progetti pilota che, oltre al rispetto per l’ambiente, stanno iniziando a includere nelle regole anche quello per gli esseri umani.

Spesso si tratta di cambiamenti costosi, forse non affrontabili da tutti i produttori con probabili lievitazioni di prezzo del prodotto, ma secondo molti esperti di sostenibilità non è più possibile ignorare questi aspetti, soprattutto nelle democrazie più avanzate. Basta rilevare che tutti gli approcci innovativi in tema di produzione di cibo stanno iniziando a fare i conti anche con il fattore umano cercando di aiutare i lavoratori che si trovino a essere sostituiti dalle macchine a riqualificarsi dopo opportuni corsi di formazione. Il progetto Food Justice Certified va in questa direzione.

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