Il latte A2 si trova ormai sugli scaffali dei supermercati di diversi paesi

In Italia è venduto solo da qualche cascina, e anche in Europa è un prodotto di nicchia, per il momento. Ma in Australia è molto popolare, presente in ogni supermercato, e anche negli Stati Uniti sta conquistando ingenti quote di mercato molto in fretta, al punto da suscitare discussioni e polemiche, perché non si riesce  a capire bene quanto le sue qualità siano reali e quanto siano frutto di intelligenti campagne di marketing.

Ecco i fatti. In Australia e in alcune zone dell’Africa la maggioranza delle mucche appartiene ad alcune razze che producono un latte chiamato A2, leggermente diverso da quello consumato nella maggior parte degli altri paesi, chiamato A1. La differenza è nel DNA. Alcune migliaia di anni fa (circa 8 mila) nelle mucche europee si è determinata la mutazione di uno solo dei 209 aminoacidi della beta-caseina (la proteina più abbondante del latte), nella posizione 67. Le mucche A2 hanno la prolina, quelle A1 l’istidina.

Secondo i sostenitori dell’A2, questa piccola differenza rende il latte più digeribile e scevro da tutte quelle responsabilità mai dimostrate ma periodicamente rilanciate dalla rete, quali l’aumento dei casi di diabete tra i bambini occidentali, le allergie, le intolleranze, la scarsa digeribilità, il rischio di malattie cardiovascolari, autismo… e chi più ne ha più ne metta. Con il latte A2 tutto ciò non avverrebbe, quasi come per magia. Ma che cosa c’è di vero? Per ora, nulla di dimostrato.

I sostenitori del latte A2 attribuiscono al latte tradizionale  svariati disturbi, dalle intolleranze al diabete

La rivista americana The Atlantic, nel tentativo di fare un po’ di chiarezza in quello che si sta profilando come un grande business fondato sulle paure irrazionali di una parte dell’opinione pubblica, ha dedicato un lungo articolo all’argomento.

L’origine della fortuna dell’A2 prende il via con uno studio pubblicato nel 1993 da Corran McLachlan e Bob Elliot, due ricercatori neozelandesi, secondo cui il latte in commercio formerebbe alcune sostanze infiammatorie per l’intestino. In  particolare, si parla di una sostanza ottenuta dalla scissione delle proteine del latte chiamata beta-casomorfina 7 o BCM-7, un oppioide naturale con un effetto pro-infiammatorio in grado di provocare intolleranze ed eczema, diabete e altre patologie. La novità è che il latte A2 non stimolerebbe la sintesi e il rilascio di BCM-7 e per questo risulterebbe in generale più digeribile.

In seguito, nel 2000, uno dei ricercatori McLachan è entrato in società con un miliardario del settore alimentare, Howard Paterson, e hanno fondato A2 Milk Company (A2MC) detentrice del marchio globale, con l’idea di conquistare il mercato neozelandese e australiano.

Uno degli scopritori della differenza tra latte A1 e A2 ha fondato A2 Milk Company insieme a un magnate dell’agroalimentare

La società ha adottato una strategia molto aggressiva basata sulle supposte prove scientifiche: ha finanziato molti studi che evidenziano le caratteristiche salutistiche del prodotto. Nel 2007 uno stimato docente di agraria della Lincoln University della Nuova Zelanda, Keith Woodford, ha pubblicato un libro intitolato: Il diavolo nel latte: malattie, salute e politica di A1 e A2, in cui il latte A1 viene demonizzato a beneficio dell’altro In seguito si è saputo che l’autore era azionista di A2MC, anche se aveva venduto le azioni nel 2007.

Il libro, comunque, ha suscitato molto scalpore, al punto da indurre la New Zealand Food Security Authority e la sua gemella europea Efsa ad aprire un dossier sull’argomento. Nel 2008 l’autorità neozelandese ha sottolineato l’esigenza di condurre altri studi, e nel 2009 l’Efsa ha stroncato il libro e in generale gli studi disponibili, evidenziandone la scarsa qualità scientifica e quindi l’affidabilità. Su tutti i bias metodologici, il rapporto europeo ha ricordato che in nella maggioranza delle ricerche la sostanza sospetta, e cioè la BCM-7, è stata iniettata, e non assorbita per via orale come avviene con il latte, e questo ha reso quei dati inutili per capire gli effetti sulla salute umana. Inoltre ha affermato che McLachlan ed Elliot erano stati  frettolosi nell’associare il latte A1 alle gravi malattie, perché i dati, semplicemente, non esistono. Sempre in quegli anni un ricercatore neozelandese ha pubblicato una revisione molto critica sull’A2, salvo ammettere, qualche mese dopo, di essere stato pagato dai produttori di A1.

Il latte A2 è già sugli scaffali dei supermercati di cinque paesi nel mondo

 

 

Il latte A2 ha conquistato il 12% del mercato australiano e si vende in Cina, Europa e Stati Uniti. E ancora: nel 2014 lo European Journal of Clinical Nutrition ha pubblicato un ulteriore studio, dove si dimostrava che l’A2 è associato a una minor incidenza di dolore addominale. Ma anche in quel caso lo sponsor era la A2 Milk Company.

Nel frattempo è stato pubblicato anche qualche dato apparentemente indipendente, come quello del 2013 firmato dal National Dairy Research of India che mostra, sugli animali, un livello di infiammazione inferiore per quelli alimentati con latte A2 rispetto a quelli nutriti con A1.

La situazione è dunque ancora alquanto confusa dal punto di vista della scienza, ma nel frattempo A2MC ha conquistato il 12% del mercato australiano del latte, e ha iniziato a vendere in Cina, Europa e Stati Uniti. La sua strategia, però, non punta più su malattie gravi quali diabete o autismo, ma si è concentrata su un terreno meno scivoloso: quello della migliore digeribilità, sfruttando abilmente anche responsi di per sé non positivi come quello dell’Efsa, che evidenziava aspetti quali la diversa digestione nell’intestino umano.

Oggi il latte A2 è presente in 5 paesi, prodotto in 20 allevamenti inglesi e quattro statunitensi. Negli USA, in particolare, A2 Milk Company ha stipulato accordi con le grandi catene di supermercati come Whole Foods, Kroger, Albertson e sta investendo molto nel mercato californiano, dove è giunta nel 2015 e  ha già superato le vendite di latte biologico, puntando anche sui prodotti dell’infanzia.

Le mucche che producono latte A2 sono quelle più “antiche”

Come fa notare The Atlantic, non ci sono prove scientifiche serie a favore dei vantaggi di A2, ma la moda si sta diffondendo in fretta, e molti produttori locali ormai propongono questo latte accanto o in sostituzione dell’A1. Anche loro sono in qualche modo dipendenti da A2MC, perché l’azienda ha brevettato nel 2000 l’unico test in commercio per determinare, attraverso l’analisi del pelo, se una mucca è A1 o A2, e nel 2003 un altro test da effettuare sul latte, e lo fornisce solo ai produttori che lavorano con lei. Solo l’Università di Davis, in California effettua test indipendenti, anche se si tratta di esami che costano dai 25 ai 75 dollari ad animale, e non sono, a quanto sembra, del tutto accurati. Altre università stanno cercando di mettere a punto test più affidabili ed economici.

La vicenda almeno negli Stati Uniti, ha assunto molti aspetti di storie che con i prodotti a km zero e biologici hanno poco a che vedere, e ricordano piuttosto la questione delle sementi Monsanto e del glifosato, per quanto riguarda il monopolio. La differenza, in questo caso, è che mucche A2 non sono geneticamente modificate e anzi, sono quelle più antiche, dalle quali sono derivate le altre. Resta il fatto che, a oggi, non è possibile dire se il loro latte sia migliore (quantomeno più digeribile) dell’altro. La cosa sicura è che le differenze esistono e questo lo ammette anche l’Efsa, tanto che il latte A2 viene usato sempre di più per le preparazioni destinate  ai lattanti. Compatibilmente con le conferme scientifiche, questo latte potrebbe permettere alle persone affette da celiachia o da altre criticità digestive di riprendere il consumo. Alcuni produttori tradizionali avanzano l’ipotesi,un po troppo semplicistica, che tutto sia il frutto di un’intelligente campagna di marketing costruita sulla paura e sulle mode.

La speranza è che, via via che il latte A2 conquista quote di mercato, vengano effettuati studi  indipendenti e al sicuro da ogni possibile sospetto di conflitto di interessi per giungere a conclusioni certe.

© Riproduzione riservata

sostieni

Le donazioni si possono fare:

* Con Carta di credito (attraverso PayPal). Clicca qui

* Con bonifico bancario: IBAN: IT 77 Q 02008 01622 000110003264

 indicando come causale: sostieni Ilfattoalimentare.  Clicca qui

0 0 voti
Vota
5 Commenti
Feedbacks
Vedi tutti i commenti
luigi
luigi
15 Febbraio 2017 14:40

interessante notizia. spero che altri studi indipendenti vengano presto alla luce

Silvia
Silvia
16 Febbraio 2017 14:01

Articolo ben scritto, ma unicamente dalla parte dei produttori di latte vaccino e carente di informazioni per la massa. Ad oggi si stima che un italiano su 3 non sappia che il latte di mucca, di capra, di asina, o di qualunque altro mammifero, se introdotto nel corpo umano conduce ad uno stato di acidificazione del proprio plasma sanguigno. Per ritornare ai valori normali , ovvero leggermente basici, utilizzeremo il fosfato come agente tampone e lo libereremo dall’osso che ne è l’unico deposito.
Facendo così demineralizzeremo le nostre ossa, e il prezioso calcio, non più trattenuto dal fosfato si ritroverà libero nel plasma e verrà escreto con le urine. Ecco perché in termini semplicistici le donne che non consumano latte o latticini vanno meno di frequente incontro all’osteoporosi.
Ma soprattutto non si dice nulla sulle reali condizioni del latte, che si presume provenga da allevamenti intensivi, anche se di animali selezionati., quindi si presume che i pericoli per la salute umana siano più o meno gli stessi, dovuti a somministrazione di antibiotici (animali a contatto troppo stretto si ammalano di più) estrogeni (le mucche devo essere ingravidate per poter poi produrre il latte), mangimi (?).
Di sicuro c’è solo che il latte conterrà ancora il famoso IGF-1. “I fattori di crescita insulino-simili, noti anche come IGF (acronimo di insulin-like growth factor) o somatomedine, sono un gruppo di ormoni peptidici dalle proprietà anaboliche, prodotti dal fegato sotto lo stimolo dell’ormone della crescita (GH) prodotto dall’ipofisi. L’American Cancer Society riporta i primi studi legati a IGF-1 come un contributo allo sviluppo del tumore, in particolare della mammella, della prostata e del colon-retto. Mentre la ricerca non ha chiarito la connessione, continui sforzi supportano questi studi …
Vogliamo poi parlare della carica batterica del latte? Questa si raddoppia a temperatura ambiente in un bicchiere di latte lasciato su un tavolino per 20 minuti….
Le mucche in allevamento intensivo hanno maggiori probabilità di sviluppare ingorghi mammari, ascessi e mastite, una infiammazione e infezione del tessuto mammario. I primi studi riferiscono che questa condizione delle mucche trasferisce batteri e potenziale pus nel latte. L’Italia consente che nel latte commercializzato siano presenti fino a 40.000 cellule somatiche della mucca per ml. In America 750.000u/ml. In Brasile 1.000.000.
Alla luce di questo, facilmente riscontrabile in studi anche molto recenti, siamo ancora convinti che bere latte animale sia una scelta giusta per il nostro organismo?
(ovviamente e deliberatamente non ho voluto parlare dei gas serra, deforestazioni, e specismo animale)

Lorenzo
Lorenzo
Reply to  Silvia
25 Febbraio 2017 16:22

Ma basta con queste menzogne sul latte e sull’acidificazione del corpo, basta! basta! basta!
La Redazione non può prendere posizione con un articolo chiarificatore?

ezio
ezio
20 Febbraio 2017 13:22

Per rimanere nel tema senza entrare nel confronto latte si, latte no, per chi, quando e quanto, dall’articolo si evincono solo guerre commerciali, fatto salvo una leggera posizione favorevole di EFSA sulla migliore digeribilità dell’A2.
E’ mai possibile che per ogni ricerca, piccola o grande scoperta che sia, si riduca tutto ad una questione di lobby e di business?
Naturalmente chi produce e vende fa esclusivamente business, ma è la qualità dei prodotti venduti a fare la differenza.
Se dalle prime evidenze emerge che il latte A2 è solamente più digeribile e meno pro-infiammatorio, vista l’altissima percentuale di asiatici e la non bassa di occidentali, intolleranti ed allergici a questo alimento per vitelli ed altri cuccioli animali, non ci vedo nessun male, ne tentate truffe in queste iniziative commerciali.
Se registriamo quanti decenni ci sono voluti per riconoscere e rimediare commercialmente all’intolleranza generale e diffusa al lattosio, speriamo che nel caso della tipizzazione genetica delle vacche da latte si faccia prima.
Sarà compito delle agenzie istituzionali e dei centri di ricerca più affidabili, verificare la reale portata di queste prime evidenze e fornirci dati reali e comprovati.
Possibilmente non tra vent’anni, come solitamente accade.

Lorenzo
Lorenzo
25 Febbraio 2017 16:25

Non capisco bene la posizione dei produttori di latte A1: non possono semplicemente mettersi a produrre latte A2? I test saranno anche brevettati, ma le mucche certamente no.