L’industria europea della carne è una potenza multimiliardaria, che impiega circa 1 milione di persone. I sindacati stimano che migliaia di lavoratori in alcuni paesi siano impiegati in modo precario tramite subappalti e agenzie, e che in alcune situazioni le persone guadagnano dal 40% al 50% in meno rispetto ai dipendenti delle stesse fabbriche. Secondo un’inchiesta condotta da il Guardian l’industria europea della carne (compreso il Regno Unito) dipende dal lavoro in outsourcing che determina un sistema basato due livelli. Il primo raggruppa i dipendenti delle aziende, il secondo è collegato alle imprese in subappalto e alle agenzie specializzate che forniscono la manodopera.
Il ricorso a lavoratori interinali è più diffuso nell’industria europea della carne che in qualsiasi altra parte del mondo sviluppato. Per questi motivi i sindacati chiedono un divieto immediato a livello europeo dell’impiego di lavoratori precari negli stabilimenti. “Ci sono persone che svolgono lo stesso lavoro, ma in condizioni diverse – dichiara al Guardian Enrico Somaglia, vicesegretario generale della Federazione europea dei sindacati dell’alimentazione, dell’agricoltura e del turismo – il sistema e la filiera sono basati su prezzi bassi al dettaglio che comportano inevitabilmente un forte sfruttamento dei lavoratori”.
Il Guardian precisa che il numero di intermediari – come subappaltatori, agenti individuali, società multiservizi, agenzie di lavoro e cooperative – è cresciuto proprio per la necessità del settore di avere lavoratori flessibili a basso reddito. Spesso questi intermediari reclutano, pagano i lavoratori e gestiscono i turni oltre a provvedere all’alloggio e al trasporto. Il sistema permette alle aziende di avere meno responsabilità legali per questioni quali retribuzione, orari di lavoro, incidenti e infortuni. Si tratta di particolari di rilievo in un settore riconosciuto come pericoloso e fisicamente impegnativo.
Secondo il Guardian il 62% circa dei 97.000 lavoratori della carne nel Regno Unito sono cittadini dell’UE. Le condizioni di lavoro dei dipendenti e del personale interinale sono le stesse, cambia però la retribuzione di questi ultimi che è inferiore. In Italia, più di 21.000 persone lavorano in questo settore. Oltre il 50% della forza lavoro nella macellazione e il 25% nella lavorazione della carne. Si tratta per lo più di migranti dall’Europa orientale, dai Balcani, dall’Africa settentrionale e centrale e dall’Asia orientale arruolati attraverso cooperative di lavoratori, dove possono costare fino al 40% in meno rispetto ai dipendenti.
Secondo una ricerca finanziata dall’UE sull’industria della carne suina italiana, molte delle cooperative di lavoro sono risultate essere imprese fasulle, istituite in modo fraudolento per sfruttare la flessibilità del lavoro e i vantaggi fiscali. Gli stabilimenti per la carne spesso subappaltano le cooperative del settore dei trasporti per evitare i salari più alti coperti dal contratto collettivo del settore alimentare. È un sistema di sfruttamento della povertà, anche perché in molti paesi, non esiste una vera supervisione e controllo sulle agenzie di reclutamento.
“Questi lavoratori migranti sono un gruppo invisibile – dichiara al Guardian Martijn Huysmans, assistente professore presso la Utrecht University school of economics – nei negozi olandesi puoi vedere che tipo di vita ha avuto un animale: abbiamo un sistema stellare per il benessere degli animali. Ma ironia della sorte, non puoi vedere in quali condizioni lavoravano le persone nel mattatoio”. Questa invisibilità di molti lavoratori precari si estende oltre il posto di lavoro. Le barriere linguistiche, gli orari di lavoro lunghi e antisociali e la mancanza di informazioni servono tutti a perpetuare lo sfruttamento dei migranti precari.
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