In occasione della Giornata mondiale della biodiversità, che ricorre il 22 maggio, Slow Food presenta il documento intitolato “Se la biodiversità vive, vive il pianeta”. Si tratta di un appello che denuncia quanto siano poco sufficienti in Italia e nel mondo le azioni per difendere la biodiversità. «Anzi – dichiara Serena Milano, segretaria generale della Fondazione Slow Food per la Biodiversità – stiamo assistendo a un attacco continuo, nella inutile rincorsa a produrre di più nell’immediato, senza tener conto dell’ambiente, della terra, della crisi climatica. Tante parole e nessun cambio di rotta”.
Nel suo rapporto sullo stato della biodiversità mondiale per l’alimentazione e l’agricoltura, pubblicato il 22 febbraio 2019, la Fao ha dichiarato che “la biodiversità è indispensabile per la sicurezza alimentare” ed “è una risorsa chiave per aumentare la produzione alimentare, limitando al contempo gli impatti negativi sull’ambiente e per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) dell’Agenda 2030
Parlare di biodiversità, significa parlare di vita: non soltanto dell’uomo, ma di tutte le specie animali e le varietà vegetali esistenti. Dagli alberi secolari e dai grandi mammiferi fino ai funghi, ai batteri e ai lieviti che abitano il suolo, tutti – e in modo correlato – contribuiscono ad assicurare la prosecuzione dell’esistenza sulla terra. Senza biodiversità non è possibile sfamare il pianeta: le monocolture sono molto fragili e non sono in grado di adattarsi agli imprevisti e ai cambiamenti climatici ciò nonostante sono sempre più diffuse e gli unici a guadagnarci, sono i detentori di brevetti e copyright che gestiscono l’agrobusiness. “Difendere la biodiversità – continua Slow Food – significa occuparsi in concreto del cibo che consumiamo tutti i giorni, e alcuni dati possono aiutare a capire di che cosa parliamo. Pensiamo all’agricoltura: il 75% delle colture agrarie presenti a inizio ’900 è ormai perso e tre specie – mais, riso, grano – oggi forniscono il 60% delle calorie necessarie alla popolazione del globo. Il 63% del mercato dei semi è nelle mani di quattro multinazionali che ne possiedono anche i brevetti. Si tratta delle stesse società che detengono la proprietà degli Ogm e sono leader nella produzione di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti”.
“Senza biodiversità, prosegue Slow Food, non può esserci vita: il declino viaggia in parallelo al declino delle possibilità per l’uomo di evitare la propria estinzione. Ogni specie vegetale, ogni razza animale, ogni ecosistema, ogni sapere che perdiamo è un’opportunità in meno di superare la grande sfida che abbiamo davanti: quella di garantire a tutti un cibo buono, pulito e giusto”.
Alla fine di aprile, il Governo italiano ha presentato il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Una delle sei missioni del piano riguarda la “rivoluzione verde e la transizione ecologica”. Secondo Slow Food, però, il Pnrr non affronta alla radice le cause delle crisi che stiamo vivendo né promuove la transizione ecologica, ma si limita a essere un piano di ammodernamento del Paese, per lo più seguendo un modello di sviluppo la cui insostenibilità è evidente. Agroecologia, biodiversità e transizione ecologica sono tre concetti che, secondo Slow Food, vanno di pari passo. Per realizzare l’auspicata transizione è indispensabile salvaguardare gli ecosistemi – ovvero di mari, fiumi e laghi, di terre alte e terre basse, di suoli e foreste e naturalmente anche delle aree urbane – e per farlo occorre abbandonare l’approccio intensivo alla produzione alimentare, imboccando la via dell’agroecologia. Definirla in poche righe non è semplice, ma si tratta di un approccio che si oppone alle monocolture, riduce nettamente l’uso di prodotti chimici di sintesi, previene il compattamento dei suoli, puntando su tecniche e pratiche funzionali alla rigenerazione della loro fertilità, come la rotazione colturale e il sovescio, e alla conservazione delle risorse, a cominciare dall’acqua e dagli impollinatori. Può stupire dire che il mercato globale è dominato da pochissime varietà commerciali, quando nel mondo esistono migliaia di varietà locali. Per esempio su 500 varietà di banane, sul mercato ne troviamo soltanto una, la Cavendish.
Secondo l’ultima “lista rossa” delle specie dell’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura), più di un terzo delle specie di fauna e flora conosciute nel mondo è a rischio di estinzione. Lo studio rivela inoltre che il 21% dei mammiferi, il 30% degli anfibi, il 12% degli uccelli, il 28% dei rettili, il 37% dei pesci di acqua dolce, il 70% delle piante, il 35% degli invertebrati classificati finora risultano minacciati. La differenza sostanziale rispetto alle estinzioni del passato risiede nella causa scatenante: non si tratta soltanto di eventi naturali con un andamento fisiologico.
Oppure pensiamo alle razze animali: più di una su cinque (il 26% delle 8.803 razze registrate a livello globale) è a rischio di estinzione: significa che hanno meno di mille capi. Il motivo è da ricercare negli interessi dell’agroindustria che punta su poche razze commerciali selezionate per le altissime rese di latte o i tempi rapidi di crescita (e dunque di produzione di carne), allevate in modo intensivo senza accesso a spazi aperti, trattate quando serve con antibiotici (e fuori dall’Europa anche con ormoni), alimentate con mangimi ottenuti da coltivazioni geneticamente modificate e trasportate su lunghe distanze. Un modello insostenibile, che oltre a causare sofferenze agli animali ha portato la zootecnia a produrre il 14,5% di emissioni di gas a effetto serra e a contribuire in maniera pesantissima alla deforestazione.
Siamo di fronte a una vera e propria crisi ecologica globale, che riguarda ecosistemi terrestri e marini, in cui l’attore principale e con le maggiori responsabilità è l’uomo, a causa della sua forte pressione sugli habitat naturali
Per fronteggiare la perdita di biodiversità animale (e con essa anche di ecosistemi e risorse naturali) occorre sostenere un modello di allevamento basato sulla diversità, la capacità di adattamento delle razze locali, il legame con il territorio e il pascolo. Questo è il messaggio che Slow Food porterà alla quindicesima riunione della Conferenza delle Parti della Convenzione sulla diversità biologica (COP 15) a ottobre, dove verrà adottato un nuovo Quadro globale per la biodiversità post-2020».
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E’ tutto quel che e’ scritto evidentemente e platealmente giusto.
Ma focalizziamoci per esempio su un caso eclatante, ed a quel che comporta in “oggetti” (effetti e comportamenti) collaterali ed indotti: prendiamo la SOIA e le sue zone di coltivazione in ARGENTINA.
Qui si tratta di cambiare quasi un intero paese! Gli indotti di queste culture hanno effetti persino sulle strutture pubbliche e politiche, oltre al resto.
Come si puo’ pensare di cambiare un simile mostro, facendolo fare a lui stesso? Bisogna inventare metodi nuovi, poteri nuovi, e sendondo me vista la natura umana su incentivi economici nuovi ed eclatanti nella loro golosita’ che inducano questi avidi attori a spostarsi e sposare il cambiamento.
Lo so, non dico poco, anzi, dico quasi l’impossibile: per questo parlo di inventare nuovi metodi e nuovi poteri; oppure inventare metodi per formare attuali bambini a diventare managers e finanziatori coscienti e non spregiudicati come gli attiuali. (ancor piu’ difficile, e nel frattempo il globo che fa?)
Abbiamo bisogno di miracoli!