Le ultime notizie sulla contaminazione da diossina della filiera agro-alimentare in Germania evidenziano la notevole estensione della crisi. Le autorità regionali hanno infatti chiuso oltre 4.700 allevamenti, avendo riscontrato negli animali tenori di diossina superiori ai limiti ammessi. Il sospetto è quello che l’azienda mangimistica al centro dello scandalo abbia impiegato oli contaminati a partire dal marzo 2010.
Il Ministro dell’Agricoltura tedesco Ilse Aigner, in una conferenza stampa il 6 gennaio, ha comunicato che “4,709 aziende e imprese agricole – delle quali, 4.468 si trovano in Bassa Sassonia, nel Nord-Ovest del Paese – sono già state sottoposte a ordine di chiusura”. Precisando che queste aziende non potranno eseguire alcuna consegna sino a quando la diossina non sarà completamente eliminata.
Il ministero si è mosso con prontezza ed efficacia, con questo provvedimento precauzionale che comporta il divieto di immettere sul mercato tutti i prodotti realizzati a partire da animali nutriti con i mangimi contaminati. E’ stato inoltre attivato un numero verde per dare riscontro alle preoccupazioni dei consumatori.
L’anello debole della catena potrebbe essere il livello intermedio dei controlli, visto che l’’industria Harles und Jentzsch al centro dello scandalo, è accusata di avere fornito circa 3.000 tonnellate di oli destinati al solo utilizzo tecnico a circa 25 produttori di mangimi. La gran parte degli oli contaminati (2.500 ton) sarebbe stata fornita, tra novembre e dicembre 2010 a mangimisti della Bassa Sassonia. Il ministero dell’Agricoltura dello Schleswig-Holstein, lo Stato ove ha sede l’azienda Harles und Jentzsch, ieri ha infatti confermato ieri che 9 campioni su 20 di mangime prelevati, presentano livelli di diossine superiori ( anche di molto) ai livelli massimi ammessi.
Il quotidiano Hannoversche Allgemeine Zeitung rivela però che alcuni rapporti di analisi redatti ne marzo 2010, attestavano già tenori di diossine doppi rispetto al limite. L’esito di queste analisi però non sarebbe stato trasmesso alle autorità competenti, tanto che il ministero dell’Agricoltura dello Schleswig-Holstein li avrebbe ricevuti solo a fine dicembre (!).
Il “cocktail” micidiale della frode criminale da un lato e l’inefficace comunicazione delle autorità regionali dall’altro, hanno portato alla chiusura di 4.700 aziende e imprese agricole (oltre una su cento, visto che in Germania se ne contano 375.000). L’Amministrazione centrale tedesca ha stimato in circa 150.000 tonnellate l’entità dei mangimi potenzialmente a rischio.
La crisi è dilagata nei Paesi Bassi e nel Regno Unito. Mercoledì 5 gennaio il Governo tedesco ha informato la Commissione europea e gli altri Paesi membri che 136.000 uova contaminate (circa 9 tonnellate) sono state esportate in Olanda. Il giorno successivo la Commissione ha comunicato che una parte di uova è stata utilizzata per la produzione di ovoprodotti poi venduti in Inghilterra. L’Agenzia britannica Food standards agency (Fsa) è subito intervenuta a rassicurare i consumatori, dopo avere constatato che le uova contaminate erano state diluite con altre partite e quindi il livello di diossina nei prodotti finiti risultava inferiore.
Il colmo della vicenda è che il ministro tedesco dell’Agricultura Ilse Aigner – anziché mettere alla gogna l’intera gerarchia del controllo pubblico nello “Schleswig-Holstein” per l’inammissibile inedia di fronte al problema diossina– si sarebbe rivolto al Commissario europeo per la tutela e la salute del consumatore John Dalli per chiedere regole più severe a tutela della sicurezza alimentare.
In realtà il sistema europeo per il controllo della sicurezza alimentare funziona bene. Per impedire lo scandalo sarebbe bastato applicare con scrupolo i regolamenti sull’igiene e sicurezza dei prodotti alimentari (reg. CE n. 852/04), (reg. CE n. 853/04), sui controlli pubblici ufficiali (reg. CE n. 882/04) e i controlli sulla filiera animale (reg. CE n. 854/04) e sui mangimi (CE n. 183/05) e avvisare come è previsto tempestivamente il sistema i allerta europeo Rasff.
La Germania non è purtroppo nuova a ritardi nelle segnalazioni all’Europa delle allerta che da casa propria dilagano altrove: nel 2006 fu il caso delle carni surgelate di kebab, ri-etichettate e vendute mesi-anni dopo il termine di durabilità . Anche in quel caso il Governo tedesco, anziché scusarsi, chiese all’Europa regole più severe.
Dario Dongo