Non bisognerebbe consumare abitualmente alimenti fritti in olio riutilizzato più volte, perché le conseguenze a carico di fegato, intestino, cervello e perfino prole, almeno negli animali, sono rilevanti. La frittura immersiva ripetuta (deep frying, in inglese), infatti, trasforma gli acidi grassi ‘buoni’ in composti nocivi, diminuendo i possibili benefici di alcuni di essi, e favorendo l’accumulo di peso. Inoltre, annulla la maggior parte degli antiossidanti presenti e produce sostanze pericolose come l’acrilammide, i perossidi, gli acidi grassi trans e altri composti.
Eppure, in molti paesi del mondo, la frittura a immersione, che prevede appunto di immergere totalmente l’alimento in olio bollente, riutilizzando per diversi giorni, è una prassi tanto nei ristoranti e nei take away quanto nelle cucine domestiche.
Per capire meglio che cosa succeda quando si consuma abitualmente cibo fritto in olio riutilizzato, i ricercatori della Central University del Tamil Nadu di Thiruvarur, in India (Paese dove la frittura a immersione in olio esausto o quasi è una modalità fondamentale della tradizione culinaria), hanno condotto una serie di esperimenti su modelli animali.
Lo studio sulle fritture con olio riutilizzato
Come hanno poi riferito al congresso dell’American Society for Biochemistry and Molecular Biology, svoltosi alla fine di marzo a San Antonio (Texas),i ricercatori hanno suddiviso gli animali in cinque gruppi: uno di controllo, uno alimentato con 0,1 ml di olio di sesamo non scaldato insieme al mangime standard, uno con lo stesso olio ma fritto più volte, uno con olio di girasole non scaldato (sempre unito al cibo normale e nella stessa quantità), e uno con cibo addizionato con olio di girasole scaldato ripetutamente, simulando ciò che può accadere nella realtà. Il tutto per un mese, e con animali anche in gravidanza.
Gi animali alimentati con entrambi gli oli riutilizzati sono aumentati di peso e hanno avuto un incremento significativo del colesterolo (sia quello totale che le LDL) rispetto agli animali che avevano ricevuto oli non fritti più volte o nessun olio. Lo stesso si è visto con i parametri che definiscono le condizioni del fegato come le transaminasi: sono aumentate negli animali nutriti con olio già usato, così come hanno fatto alcuni marcatori di infiammazione e l’espressione di alcuni geni correlati.
Ma i ricercatori sono andati oltre ai valori ematici e hanno visto che chi era stato alimentato con oli riusati aveva riportato lesioni piuttosto evidenti nell’intestino, nel fegato, e anche nel cervello. Qui, oltre a esserci un’espressione più bassa dei geni che regolano la plasticità neuronale e, quindi, la capacità di rigenerazione e riparazione dei danni, sono state rinvenute vere e proprie lesioni, assenti negli animali di controllo.
Le interpretazioni
Non stupisce che l’esito finale del danno sia nel cervello. L’asse che collega intestino, fegato e sistema nervoso è noto da tempo, e costituisce una sorta di via di transito nei due sensi, dall’intestino e dal fegato al cervello e viceversa, per sostanze che possono avere un effetto positivo o, come in questo caso, negativo.
Nello specifico, lo stress ossidativo evidenziato dagli esami comporta alterazioni del microbiota intestinale. I batteri e gli altri microrganismi iniziano a rilasciare endotossine e lipopolisaccaridi (molecole di grasso associate a certi ceppi) che alterano profondamente il metabolismo dei grassi a livello del fegato. E queste sostanze dannose raggiungono il sistema nervoso. Inoltre, uno degli effetti dello squilibrio è la diminuzione dell’acido grasso omega 3 DHA (acido grasso fondamentale) che raggiunge il cervello, con conseguente calo della capacità rigenerativa. E questo spiega anche perché questo tipo di danni si veda nella prole degli animali alimentati così: lo sviluppo del sistema nervoso fetale è compromesso.
Secondo gli autori, se non si può fare a meno di riutilizzare l’olio, forse l’aggiunta di antiossidanti come la curcumina e il gamma orizanolo (estratto dalla crusca di riso) potrebbe in parte contrastare gli effetti negativi su fegato e cervello, ma resta da dimostrare. Inoltre, sarebbe importante condurre studi simili sulle persone, per verificare se quanto osservato accade anche negli esseri umani, soprattutto in chi è abituato a mangiare alimenti fritti molto spesso. Infine, bisognerebbe capire se tutti gli oli, se fritti più volte, si comportino allo stesso modo.
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Giornalista scientifica