Conflitto di interessi, olio di palma, carne cancerogena, politiche locali e globali per una sana alimentazione: sono i temi affrontati in questa intervista esclusiva realizzata da Valentina Murelli a Francesco Branca, direttore del Dipartimento della nutrizione per la salute e lo sviluppo dell’Organizzazione mondiale della sanità. Oltre ad esaminare le tematiche più scottanti del momento Branca delinea per il futuro la necessità di lavorare lungo tutta la filiera per permettere ai consumatori di avere un accesso reale agli alimenti sani oltre che disporre di informazioni imparziali, credibili e indipendenti. Si tratta di un punto di vista particolarmente interessante perché fino a pochi anni fa è stato ricercatore dell’Inran ora CreaNut.
All’inizio del 2015 l’Oms ha pubblicato le Linee guida sul consumo di zuccheri liberi, aggiunti agli alimenti durante le preparazioni domestiche o industriali oppure contenuti in miele, succhi di frutta e concentrati del succo di frutta, suggerendo un consumo inferiore al 10% dell’apporto energetico quotidiano, e possibilmente inferiore al 5%. Le Linee guida sono state accolte da alcune polemiche perché si dice che penalizzerebbero un singolo nutriente, mentre nessun nutriente andrebbe demonizzato. Cosa pensa di questa obiezione?
I singoli nutrienti sono solo il punto di partenza di un percorso complesso, che arriva a messaggi generali sulla sana alimentazione. Il primo passo è valutare se ci sono informazioni sufficienti sul rapporto tra un nutriente e particolari aspetti legati alla salute. Si parte da lì per stabilire obiettivi nutrizionali. Nel caso degli zuccheri semplici, i dati della letteratura scientifica ritengono queste sostanze collegate a: sovrappeso, carie, rischio cardiovascolare. Sulla base di tali informazioni si stabiliscono gli obiettivi nutrizionali, cioè i livelli di consumo appropriati per ridurre al minimo i rischi per la salute.
Ma non finisce qui… Il passaggio successivo è chiedersi dove si trovano i nutrienti. Dall’analisi ricaviamo raccomandazioni sul consumo di determinati alimenti o gruppi di alimenti. Per esempio, dato che gli zuccheri liberi sono presenti in grandi quantità nelle bevande zuccherate, per ridurre il consumo di zucchero è giocoforza suggerire di ridurne il consumo. Ovviamente le analisi e le raccomandazioni sono legate al contesto dei singoli paesi, perché le abitudini alimentari variano.
A volte arrivano allarmi riferiti a interi gruppi di alimenti, come nel caso della carne. Cosa si fa in questi casi?
A volte si focalizza l’attenzione su gruppi di alimenti, per altre caratteristiche, indipendenti dalla composizione nutrizionale, come nel caso dei metodi di trasformazione o di cottura della carne o di eventuali contaminazioni con inquinanti come mercurio o pesticidi per il pesce. Ci possono anche essere alimenti con componenti benefiche e al contempo problematiche, come nel caso dei prodotti lattiero-caseari, che contengono nutrienti importanti (calcio, certe proteine animali), ma contengono anche grassi saturi. In queste circostanze bisogna fare una valutazione degli aspetti positivi e dei rischi, e sviluppare raccomandazioni per un adeguato consumo, che possono anche essere differenziate per le diverse fasi della vita.
Prendiamo il caso della carne: l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha dichiarato la cancerogenicità di quella trasformata, come wurstel o insaccati, e una possibile cancerogenicità di quella rossa. Cosa significa per i consumatori?
L’Agenzia ha stabilito in modo definitivo che esiste un legame tra il consumo di carni conservate e l’aumento del rischio di cancro del colon retto. Del resto già nel 2002 l’Oms aveva raccomandato di moderare i consumi di carni conservate proprio per ridurre questo rischio. Quello che manca adesso è una valutazione dettagliata del rischio, per dare ai consumatori indicazioni precise sulle quantità “sicure”. Il mio Dipartimento sta proprio lavorando su questo aspetto.
Tornando alle Linee guida sugli zuccheri. Le indicazioni sono state attaccate dalla delegazione italiana al Consiglio esecutivo dell’Oms (delegazione composta anche da esperti con contatti con l’industria alimentare). Il testo è stato giudicato troppo restrittivo, e sono stati richiesti chiarimenti sulle modalità di elaborazione e adozione. Cosa pensa di questa vicenda e come si è evoluta?
L’Oms non discute la composizione delle delegazioni nazionali, che viene comunicata per vie diplomatiche prima delle riunioni e inclusa nella documentazione. Per quanto riguarda la richiesta di chiarimenti, questa si riferiva alle procedure con cui le linee guida vengono sviluppate e non specificamente a quelle sugli zuccheri semplici. La risposta a tale richiesta è contenuta in un documento predisposto dall’Oms e discusso nel consiglio esecutivo del mese di maggio 2015.
Resta il fatto che la vicenda ha toccato un nervo scoperto nel mondo della nutrizione evidenziando il problema dei conflitti di interesse. Il Fatto Alimentare se ne è occupato, denunciando la posizione di Andrea Ghiselli del Cra-Nut, responsabile delle Linee guida per una sana e corretta alimentazione, ma anche consulente dell’industria. Qual è la posizione dell’Oms e quali dovrebbero essere i requisiti di chi partecipa alla formulazione di linee guida nazionali o internazionali?
È una domanda posta dai paesi membri nell’ambito dell’Assemblea Mondiale della Salute e l’Oms ha risposto con una consultazione di esperti, che hanno elaborato una relazione da discutere nel prossimo Consiglio Esecutivo di gennaio 2016. Il primo punto è la definizione di conflitto di interesse e va chiarito che non stiamo parlando necessariamente di episodi di corruzione. Anche situazioni più sfumate come consulenze (addirittura non retribuite), finanziamenti per la ricerca, inviti a convegni, possono definire un conflitto di interesse, o possono essere percepite come tali dall’opinione pubblica.
Se un comitato con la responsabilità di emettere linee guida pubbliche sull’alimentazione o la salute ospita membri coinvolti in situazioni di questo tipo, le raccomandazioni possono uscirne indebolite o risultare meno credibili. Per questo è necessario che le istituzioni si dotino di una forma di protezione contro i conflitti di interesse, reali o percepiti. Nel caso dell’Oms, gli esperti che hanno avuto qualunque forma di collaborazione con le industrie non possono partecipare all’elaborazione delle linee guida, perché vogliamo fornire indicazioni imparziali, indipendenti, credibili, frutto di un processo trasparente. Dobbiamo convincere i cittadini che le nostre indicazioni sono solide e anche le istituzioni pubbliche coinvolte in questi processi dovrebbero fare altrettanto.
Torniamo alle raccomandazioni sui nutrienti. Prima degli zuccheri liberi era toccato al sale (non più di 5 grammi al giorno). Ora di cosa vi state occupando?
Stiamo lavorando sulle raccomandazioni per i consumi di grassi (totali, saturi, insaturi e trans). L’Oms offre già indicazioni in proposito, suggerendo un apporto inferiore al 30% delle calorie quotidiane per i grassi totali, inferiore al 10% per i grassi saturi e inferiore all’1% per i grassi trans, ma stiamo aggiornando le raccomandazioni con i nuovi dati disponibili.
La questione dei grassi richiama immediatamente l’olio di palma. Cosa possiamo dire in proposito?
È un aspetto che stiamo valutando. Stiamo parlando di un olio con un elevato contenuto di grassi saturi, oggetto di attenzione perché è un ingrediente molto diffuso nell’industria alimentare, in particolare per certi prodotti da forno e nel settore dolciario, perché è interessante dal punto di vista tecnologico e costa meno di altri grassi. Al momento l’Oms si limita a lavorare sulle raccomandazioni generali relative all’apporto di grassi saturi e sulle strategie per promuoverne la riduzione. Di sicuro posso dire che ha senso ragionare su possibili alternative all’olio di palma e su come effettuare eventuali sostituzioni. Sempre senza dimenticare che le variabili in gioco sono tantissime.
Cioè?
Se vogliamo ridurre il contenuto di grassi saturi negli alimenti bisogna che ci siano alternative accessibili sul mercato. La cosa è possibile solo adottando politiche coerenti lungo tutta la filiera alimentare. Oggi l’olio di palma è molto diffuso anche perché gode di grande supporto a vari livelli: la produzione, incoraggiata dalle politiche di sviluppo agricolo, dagli investimenti nella ricerca e nelle nuove piantagioni; il commercio, favorito dalle politiche fiscali e tariffarie. Insomma, è molto diffuso perché costa meno e costa meno anche perché alcuni fattori rendono la produzione e l’uso più facili rispetto ad altre fonti. Sostituire l’olio di palma significa ragionare su tutti questi aspetti, coinvolgendo non solo chi si occupa di salute, ma anche chi si occupa di agricoltura, economia, ricerca scientifica, sviluppo tecnologico e così via. Del resto, le politiche globali di filiera sono un tema che riguarda l’alimentazione in generale.
Insomma, non basta dire alla gente che deve mangiare bene…
Esattamente. L’informazione su una corretta alimentazione è fondamentale, ma non basta. Ci vuole un approccio globale, lungo tutta la filiera. Non possiamo limitarci a chiedere ai consumatori di seguire una dieta sana: bisogna che ci sia disponibilità di alimenti sani e per averli occorrono ingredienti adeguati, la cui produzione deve essere supportata da politiche specifiche di investimento in agricoltura, ricerca, trasformazione. Altrimenti rischiamo di mettere i consumatori di fronte all’impossibilità di fare le scelte e di scavare un divario tra i sostenitori della sana alimentazione e il mondo della produzione. In tutto questo discorso dovrebbero entrare anche considerazioni sull’impatto ambientale, tanto che si sta cominciando a ragionare su linee guida per un’alimentazione non solo sana ma anche sostenibile.
E di nuovo il pensiero torna all’olio di palma, la cui produzione ha sicuramente un impatto ambientale notevole. Possiamo dire qualcosa anche sull’impatto con la salute?
È un tema del quale l’Oms comincerà a occuparsi in modo specifico nei prossimi mesi, anche su sollecitazione dei paesi produttori che vogliono saperne di più. I risultati degli studi sono contraddittori, e dipendono dalle alternative alle quali l’olio di palma viene paragonato. Bisogna anche vedere chi ha realizzato e finanziato i diversi studi.
Diceva che per promuovere una sana alimentazione occorre coinvolgere tutta la filiera. Al di là di grandi rivoluzioni globali nei sistemi produttivi, è possibile fare qualcosa a livello locale per dare una mano ai consumatori?
Certo, ci sono vari strumenti di politica alimentare e nutrizionale che possono essere applicati e vari paesi hanno già cominciato. Per esempio: i controlli sulla pubblicità, in particolare quella diretta ai bambini, le etichettature nutrizionali, le tassazioni, l’offerta di alimenti nelle mense pubbliche, il dialogo con l’industria sulla riformulazione di prodotti trasformati.
Può fare qualche esempio?
La strategia di riduzione del contenuto di sale, basata sulla riformulazione di prodotti concordata con l’industria. È stata usata con successo in Finlandia e nel Regno Unito e anche in Italia, dove per esempio sono stati effettuati accordi con i panificatori, comincia a produrre qualche risultato. Qualcuno sta cominciando ad applicare la stessa strategia anche per zuccheri e grassi – e si inserisce in questo contesto la sostituzione dell’olio di palma con grassi alternativi – ma non ci sono ancora dati sufficienti per dire se funzionerà davvero su grande scala. Molto interessante è anche l’idea delle etichette in grado di fornire informazioni dirette sul grado di salubrità di un prodotto, utilizzando codici di colori (etichette a semaforo n.d.r). Alcune esperienze in Sud America e nel Regno Unito evidenziano un cambiamento delle scelte di acquisto da parte delle persone. Ci sono anche produttori che, per evitare di essere penalizzati dalla presenza di semafori rossi, hanno modificato i prodotti.
E per quanto riguarda i sistemi di tassazione di cibi meno salutari? Funzionano?
I dati sono variabili. In alcuni casi sembrano avere funzionato poco, in altri le cose sono andate meglio. In Ungheria, per esempio, la tassazione di prodotti a più alto contenuto di zuccheri, sali e grassi ha dato risultati interessanti soprattutto rispetto alle scelte dei produttori, che sono stati spinti a cambiare ricette. Probabilmente, la strategia migliore è integrare più misure possibili, lavorando sull’intera la filiera.
Le etichette a semaforo adottate in Francia, chiamate Nutri-Score, sono il miglior sistema per aiutare il consumatore a capire le caratteristiche nutrizionali di un prodotto. Lo schema è molto semplice: il rosso indica un alimento da assumere con moderazione, il verde un cibo sano mentre il giallo invita a consumare il prodotto senza esagerare, per mantenere una dieta equilibrata. Le etichette sono state accolte con entusiasmo dall’OMS e dalle associazioni dei consumatori. In questo dossier di 19 pagine spieghiamo come funziona il Nutri-Score e perché nutrizionisti e società scientifiche che si occupano di alimentazione non possono che essere favorevoli all’adozione anche in Italia.
I lettori interessati a ricevere l’ebook, possono fare una donazione libera e ricevere in omaggio il libro in formato pdf “Etichette a semaforo”, scrivendo in redazione all’indirizzo ilfattoalimentare@ilfattoalimentare.it
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giornalista scientifica
gli OGM sono parte di un’alimentazione sostenibile? poi, per ciò che concerne il consumo di sale, l’accordo con i panificatori ha, a mio modesto avviso, prodotto risultati inconsistenti. tutti i panificatori locali (vivo nella Daunia), da me contattati, si sono rifiutati sia di variare i relativi dosaggi negli impasti che di produrre alternative ai pani tradizionali. il risultato è che oggi il pane che consumo è autoprodotto!
Gli accordi per ridurre il quantitativo di sale nel pane sono un sistema che ha funzionato bene in Francia e che è dapoco stato avviato in Italia . Servono alcuni anni ma poi c’è un risultato
da poco, relativamente. sono già alcuni anni (2010) che sento parlare di questo accordo del ministero della salute con i panificatori e, nei locali mercati, a parte il panificio Forte di Altamura (Ba), che confeziona un tipo di pane contenente circa 10 g. di sale per kg, non s’è vista nessun’altra iniziativa.
Mi sembra che quanto afferma in merito all’olio di palma, smentisca in gran parte l’ossessione attuale.
Il fatto che l’Oms discuta di olio di palma mi sembra un buon motivo per non ritenerla un’ossessione visto che gli altri argomenti erano zucchero, sale, conflitto di interessi, etichette ….ovvero argomenti che trattiamo tutti i giorni
Sostituire l’olio di palma significa ragionare su tutti questi aspetti, coinvolgendo non solo chi si occupa di salute, ma anche chi si occupa di agricoltura, economia, ricerca scientifica, sviluppo tecnologico e così via. Del resto, le politiche globali di filiera sono un tema che riguarda l’alimentazione in generale.
cioè quello che altri utenti del sito avevano fatto notare. Onore al merito ovviamente a chi ha detto no.
“I risultati degli studi sono contraddittori, e dipendono dalle alternative alle quali l’olio di palma viene paragonato. Bisogna anche vedere chi ha realizzato e finanziato i diversi studi.”
Trovo tuttora incredibile ! Linee guida OMS sugli zuccheri. sono state attaccate dalla delegazione italiana al Consiglio esecutivo dell’Oms (delegazione composta anche da esperti con contatti con l’industria alimentare)
Buongiorno,
Vorrei sapere questo: Ma la Mulino Bianco prende in giro con tutte le sue pubblicità per modo di dire salutari?
Non solo usano olio di palma ma pure olio di colza che ancor peggio…
Non è meglio che tutte le grandi marchi usassero solo burro – olio extra vergine (quello vero) oppure se proprio
costano troppo per loro usare olio di cocco che mi sembra più salutare dei primi due?
Grazie dell’attenzione
Miriam