La petizione per mantenere l’obbligo di indicare sulle etichette lo stabilimento di produzione sta coinvolgendo sempre più l’opinione pubblica, come mostrano i tanti articoli sui media e l‘interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle.  La questione ha coinvolto anche molte aziende che hanno deciso di mantenere sulle confezioni il nome dello stabilimento di origine. Anche le catene di supermercati più importanti hanno aderito all’appello e nella lista troviamo: Unes, Conad, Coop, Selex, Simply, Auchan, Eurospin, NaturaSì. La novità è che anche Carrefour ed Esselunga si sono unite al gruppo, come spiega in un articolo Monica Rubino pubblicato ieri (1° marzo 2015) su Repubblica. Vi proponiamo l’articolo integrale pubblicato ieri dalla giornalista dove si spiega perché è così importante sapere e scrivere sulle etichette dove viene prodotto un certo alimento.

Etichette ‘mute’

Sapere esattamente dove e chi fa ciò che mangiamo: è il senso della battaglia sul mantenimento nelle etichette alimentari dell’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione. Obbligo prima sancito dalla legge italiana (lo prevedeva il D. Lgs 109/92). Ma che è stato abrogato dalle norme europee, ossia dall’entrata in vigore il 13 dicembre 2014 del Regolamento Ue 1169/2011 sulla nuova etichettatura dei cibi. La normativa europea, infatti, si limita a imporre l’obbligo di indicare solo il responsabile legale del marchio, che non serve a identificare esattamente la fabbrica nella quale è stato elaborato il prodotto. Per intenderci: una sede legale a uno stesso indirizzo e numero civico può rappresentare legalmente marchi e prodotti che vengono fatti in stabilimenti diversi e anche all’estero.

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Ecco come si presentava l’etichetta dei plumcake prima del 13 dicembre

L’indicazione della fabbrica, adesso, è facoltativa. Ma è facilmente intuibile che le grandi multinazionali europee della distribuzione, non più costrette a fornire questa indicazione e quindi non passibili di alcuna sanzione, tenderanno a eliminarla dai prodotti commercializzati con il loro marchio (detti anche ‘private label’). Come del resto sta già accadendo.

Le prime censure sulle etichette

Si cominciano, infatti, a vedere i primi esempi negativi di etichette ‘censurate’, diventate ‘mute’, ovvero che non ci consentono più di capire dove e chi esattamente fabbrica il prodotto. A segnalarcele è il sito ioleggoletichetta.it, fondato da Raffaele Brogna proprio con l’intento di comparare le etichette e aiutare i consumatori a risparmiare sulla spesa. E che ha lanciato, in tempi non sospetti, una petizione sul mantenimento della sede dello stabilimento che finora ha raccolto più di 20mila di firme ed è stata sottoscritta da molti imprenditori e distributori italiani.

Guardate, ad esempio, l’immagine di questa etichetta di uno stesso identico prodotto italiano pre e post Regolamento europeo. “La stessa identica confezione di Plumcake della Lidl a marchio Nastrecce, di cui Lidl è committente e responsabile – spiega Brogna – ante 13 dicembre 2014 riportava in base alle legge 109/92 l’indicazione dello stabilimento di produzione e infatti leggiamo: ‘Prodotto in Italia da Vicenzi Biscotti Spa, Via F. Forte Garofolo 1, 37057 S. Giovanni Lupatoto (VR) nello stabilimento di Nusco (AV), Contrada Fiorentine, Zona Industriale F1’. Sulla nuova confezione Post 13 dicembre 2014 con l’applicazione del nuovo Regolamento europeo 1169/2011 leggiamo invece solo: ‘Prodotto in Italia, Lidl Italia Srl, Via Augusto Ruffo 36, I – 37040 Arcole (VR)’. C’è la sede legale di Lidl, ma manca lo stabilimento di produzione”.

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La nuova versione dell’etichetta dei plumcake dopo l’abrogazione dell’obbligo di indicare la sede di produzione

“Perché Lidl l’ha tolta? -–si chiede il fondatore di ioleggoletichetta.it – Per rispettare la nuova legge? Ma il regolamento Ue, pur avendo tolto l’obbligo, ha reso facoltativa questa indicazione. E anche il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ha chiesto alle aziende di continuare a scriverlo in segno di trasparenza. Forse l’azienda tedesca con sede italiana ad Arcole non vuole far sapere chi fa i suoi prodotti? Eppure ha la facoltà di decidere, anche se il produttore dovesse essere essere contrario, di scrivere l’indirizzo dell’azienda produttrice. Così ha fatto Conad, che si è assunta l’impegno di continuare a scrivere lo stabilimento anche se la legge non lo prevede più, come anche Coop, Selex, Unes, Coralis, Eurospin, Auchan, Simply. Lidl ancora no. E nemmeno Esselunga, Carrefour e tutte quelle aziende produttrici che non hanno ancora firmato la nostra petizione”.

Diritto di replica: Lidl non risponde

Abbiamo provato a chiedere a Lidl perché ha tolto la preziosa indicazione dall’etichetta dei plumcake prima citati, scrivendo un’email con la domanda all’indirizzo dell’ufficio stampa indicato sul sito internet di Lidl Italia. Nessuna risposta. Allora abbiamo chiamato un numero verde (l’unico, del resto, esistente sul sito), chiedendo di farci passare l’ufficio stampa. Ma una cortese signorina, dopo averci fatto il terzo grado, ci ha detto che “non esiste un numero dell’ufficio stampa”. E poi ha chiuso bruscamente la conversazione. Un po’ ce l’aspettavamo, visto che l’azienda tedesca persegue una politica di riservatezza degna dei servizi segreti.

Buone notizie da Esselunga e Carrefour

Abbiamo chiesto anche a Esselunga e Carrefour perché non hanno firmato l’appello di Brogna o se, aldilà della petizione, sono comunque intenzionate a mantenere facoltativamente l’indicazione dello stabilimento. Entrambe ci hanno fornito risposte incoraggianti. Esselunga ha sottolineato, infatti, di essere sensibile a questo tema, “tanto è vero che, su tutte le etichette dei prodotti a marchio privato, è indicato lo stabilimento di produzione”. E ha annunciato che inserirà l’indicazione pure “sui nuovi prodotti che saranno lanciati sul mercato”.

Anche da Carrefour fanno sapere che “tutti i prodotti a marchio Carrefour fatti in Italia riportano e continueranno a riportare in etichetta l’indicazione dello stabilimento di produzione. Indipendentemente da ciò che verrà definito per legge, Carrefour continuerà a fornire, in piena trasparenza per i propri consumatori, il nome del produttore e l’indirizzo del luogo ove la produzione avviene”.

Il nodo dei ‘copacker’

Perché allora l’Europa ha deciso di eliminare questa importante indicazione? Secondo Brogna il vero scopo è quello di “nascondere i copacker, ossia le aziende che realizzano e forniscono prodotti per le catene europee della grande distribuzione, in modo da poter creare nuove marche senza dire ai consumatori chi le produce. Insomma, l’ennesimo favore alle multinazionali del cibo”.

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L’abrogazione a livello europeo serve per nascondere i copacker

I cinque motivi per cui mantenere lo stabilimento sulle etichette

La sede dello stabilimento in etichetta non è un’informazione di poco conto, ma di fondamentale importanza, per almeno cinque motivi:

1. Permette di difendere il vero made in Italy e garantisce un maggior controllo sulla tracciabilità e la sicurezza dei prodotti. Ad esempio, se lo stabilimento trasloca all’estero, il cibo perde completamente la sua identità di ‘fatto in Italia’. Ma il consumatore non ne sa nulla, a meno che qualcuno si prenda la briga di informarlo.

2. I marchi italiani nelle mani di gruppi stranieri e multinazionali del cibo sono parecchi, nell’alimentare come in altri settori (pensiamo a Perugina e Buitoni acquistate da Nestlé, Algida da Unilever, Parmalat, Galbani e Cademartori di proprietà della francese Lactalis e così via). “Il vero problema – spiega Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare, fondatore di Great Italian Food Trade – è costituito dai gruppi che con un marchio italiano in tasca, magari pure una sede legale in Italia riescono a mandare tutti a casa e delocalizzare la produzione all’estero, continuando a vendere i prodotti con marchi italiani storici nel nostro Paese e nel mondo“.

3. L’indicazione dello stabilimento di produzione serve a facilitare e abbreviare i tempi di gestione delle crisi di sicurezza alimentare, poiché è più semplice risalire all’origine del problema quando si può facilmente identificare la fabbrica da cui il prodotto proviene (sì, è vero, in etichetta c’è l’indicazione del lotto di produzione, ma vuoi mettere quanto è più veloce identificare subito lo stabilimento?).

4. Garantisce al consumatore una scelta informata di acquisto, che ragionevolmente può tendere a favorire gli alimenti realizzati in un determinato luogo da uno specifico produttore. Non solo per ‘campanilismo’, ma anche come riconoscimento del valore delle tradizioni e della cultura materiale dei singoli territori.

5. L’indicazione dello stabilimento, infine, consente di capire se due prodotti anche se di marca diversa vengono fatti dallo stesso produttore. Quindi il consumatore conoscendo il produttore può risparmiare facendo la scelta più conveniente in rapporto qualità-prezzo, scoprendo ad esempio che un prodotto del discount o del supermercato può essere a volte uguale a quello di marca.

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La battaglia è trasversale: dalla petizione di Il Fatto Alimentare a ioleggoletichetta.it

Lo stato dell’arte

La battaglia di ioleggoletichetta.it è diventata con il tempo trasversale. Le petizioni (anche Il Fatto Alimentare ne ha lanciata una su Change.org assieme a Great Italian Food Trade), le interrogazioni a Bruxelles (come quella dell’eurodeputata di Forza Italia Elisabetta Gardini), le interpellanze urgenti dei parlamentari del M5s (con i deputati Paolo Parentela e Giuseppe L’Abbate in prima linea), hanno ottenuto come primo risultato l’attenzione del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina che, sia pure tardivamente rispetto alla data di applicazione del regolamento Ue 1169/2011, ha saputo raccogliere questa istanza diffusa, dichiarando la propria volontà a notificare alla Commissione europea la norma nazionale.

Ma l’onere della notifica ricade anche su un altro dicastero, quello dello Sviluppo Economico. La titolare, Federica Guidi, ha risposto convocando i rappresentati della filiera produttiva attorno a un tavolo. Al termine della riunione tenutasi l’11 febbraio, le parti hanno deciso di attivare immediatamente a Bruxelles tutte le “verifiche necessarie” per ripristinare l’obbligo. “I canali con Bruxelles sono stati aperti”, ci assicurano dal Mise. Ma per gli attivisti non è abbastanza: “Da qualche parte ci deve essere qualcuno che frena – conclude Brogna – rimaniamo in attesa di vedere progressi e azioni concrete a livello legislativo in Italia e in Europa e anche nel futuro TTIP (l’accordo commerciale fra Usa ed Europa in fase di negoziazione, ndr)”.

Soluzioni, un’ipotesi

Una scappatoia in realtà ci sarebbe. L’articolo 39 del Regolamento europeo sull’etichetta, infatti, prevede che gli Stati membri possano introdurre obblighi aggiuntivi ma solo per categorie specifiche di alimenti purché siano giustificati da uno dei seguenti motivi: protezione della salute pubblica e dei consumatori, prevenzione delle frodi, protezione dei marchi, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni di origine controllata e per la repressione della concorrenza sleale. Proprio questo articolo ci permetterebbe di reintrodurre nella legislazione italiana l’indicazione della sede di produzione in una forma tale da non poter essere censurata da Bruxelles.

Monica Rubino (articolo ripreso da Repubblica)

© Riproduzione riservata Foto: iStockphoto.com

Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade hanno lanciato una petizione per chiedere che sulle etichette dei prodotti alimentari rimanga l’indicazione dello stabilimento di produzione

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Marco
Marco
2 Marzo 2015 17:20

Vorrei proprio sapere con precisione chi sono le fulgide menti che hanno pensato e proposto questa legge e per conto di chi?
Io una idea l’ho.