Etichette alimentari: la sede dello stabilimento necessaria per il Made in Italy. Il commissario UE ammette che i consumatori senza l’indicazione possono essere ingannati
Etichette alimentari: la sede dello stabilimento necessaria per il Made in Italy. Il commissario UE ammette che i consumatori senza l’indicazione possono essere ingannati
Roberto La Pira 7 Marzo 2015La protezione del Made in Italy attraverso il ripristino obbligatorio sulle etichette alimentari della sede dello stabilimento di produzione raccoglie il sostegno ma anche reazioni avverse a Bruxelles. Un’interrogazione scritta alla Commissione europea è stata presentata il 2 febbraio dall’eurodeputata Elisabetta Gardini, per segnalare la crescente difficoltà dei consumatori europei nell’identificare l’origine, non solo geografica ma anche della sede produttiva – dei prodotti commercializzati con il marchio delle catene dei supermercati (private label). A questo aspetto si aggiunge il fenomeno delle delocalizzazioni che le multinazionali portano avanti, senza informare i consumatori. I cittadini rischiano così di essere ingannati quando comprano prodotti alimentari con marchi italiani che lasciano immaginare un’origine diversa da quella effettiva, come abbiamo segnalato in questo articolo riportando vari esempi.
Riprendendo le dichiarazioni del Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina che il 17 gennaio 2015, ha manifestato l’intenzione di notificare a Bruxelles la richiesta di mantene in etichetta l’indicazione dello stabilimento di origine per tutelare la salute pubblica e per prevenire le frodi, ai sensi del regolamento UE 1169/2011 (articolo 39). Gardini ha chiesto se la Commissione intenda chiarire – nelle ‘domande e risposte su come applicare il regolamento FIC’ – l’obbligo di indicare l’origine quando la sua omissione possa indurre in errore i consumatori a causa delle modalità di presentazione dei prodotti, anche in relazione dei marchi utilizzati. Facciamo un esempio. Quando compra un un gelato Algida, marchio affermato in Italia da oltre 70 anni, il consumatore ha buone ragioni di credere che si tratti di un gelato italiano, prodotto nello storico stabilimento di Caivano. Se così non è, il consumatore ha il diritto di saperlo per poter scegliere un gelato autenticamente italiano, preparato con latte locale come Sammontana, realizzato a Empoli.
Il Commissario lituano Vytenis Andriukaitis il 27 febbraio ha risposto, facendo una discreta confusione tra le informazioni obbligatorie previste dalla legge e il diritto degli Stati membri di pretendere la sede dello stabilimento di produzione in etichetta e le altre misure in tema di origine dei prodotti (ai sensi del reg. UE 1169/11, art. 39.1 del successivo comma 2). La conclusione è stata che la Commissione “non considera l’informazione sull’origine o la provenienza come uno strumento utile né a prevenire le frodi, né a proteggere la salute pubblica”. La risposta del Commissario sembra quasi ‘tele-guidata’ dai portatori di interessi contrari a quelli portati avanti dalle decine di migliaia di cittadini che hanno aderito alle petizioni promosse da Io leggo l’Etichetta, Great Italian Food Trade e Il Fatto Alimentare.
Il Commissario ha dovuto riconoscere che il regolamento UE 1169/11 prescrive (all’articolo 26.2.a) il dovere di indicare il paese di origine o il luogo di provenienza dell’alimento ogni qual volta l’omissione possa indurre in errore il consumatore sull’effettiva origine, in relazione alle notizie che accompagnano il prodotto, l’etichetta e il marchio commerciale oggetto di interrogazione.
Si tratta di una vittoria a metà, da cui possiamo trarre alcune conclusioni:
– il Governo italiano, se deciderà di portare avanti gli interessi delle nostre industrie, potrà notificare alla Commissione europea la disposizione nazionale che dal 1992 ha previsto l’obbligo di indicare in etichetta non l’origine del prodotto ma, la sede e l’indirizzo di produzione. Poiché è proprio questa informazione necessaria per tutelare meglio la salute pubblica (nella gestione dei rischi di sicurezza alimentare) e la prevenzione delle frodi (al fine di distinguere il vero ‘Made in Italy’ dal falso ‘Italian sounding’).
– i consumatori e loro associazioni, giornalisti e autorità di controllo hanno ragione nel pretendere che quando un alimento commercializzato con un marchio italiano è confezionato in uno stabilimento straniero debba riportare in etichetta quantomeno, notizia dell’origine da un Paese diverso.
Dario Dongo
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Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade hanno lanciato una petizione per chiedere che sulle etichette dei prodotti alimentari rimanga l’indicazione dello stabilimento di produzione
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
Prodotto italiano o no, il consumatore ha sempre diritto di conoscere lo stabilimento di produzione e da dove proviene la materia prima; chi lo nega o ci gira intorno difende altri interessi.
A me sembra che si continui a soffiare sul fuoco di una battaglia che si può “vincere” solo violando le regole dell’Unione. Non si può fare una norma nazionale che prescriva l’obbligo di indicazione dello stabilimento e neppure dell’origine. Il commissario non poteva e non doveva rispondere altrimenti. Che sia giusto o sbagliato è un altro discorso.
Ma le leggi si rispettano, e semmai si cerca di cambiarle. Mi domando anche quanto ad un paese come il nostro convenga una battaglia per iniziative fuori dal diritto europeo.
Se la si fa e promuove, con l’idea che le regole valgono solo quando piacciono, non si venga poi a piangere se gli inglesi adottano i semafori.
Il piano B secondo me è quello di creare i presupposti per cui i produttori italiani si impegnano volontariamente a riportare in etichetta lo stabilimento di origine. Come stanno facendo i supermercati con i loro prodotti a marchio
Condivido la proposta di Roberto La Pira.
Io condivido l’obbligo di indicare la sede dello stabilimento. Produco preparati con materie prime cinesi a Prato. Ho una linea di noodles made in Italy ed è giusto che possa affermarlo. A prescindere dalla materia prima agricola che utilizzo (cinese). Ritengo però giusto che sia sede dello stabilimento di produzione. La sede di confezionamento mi danneggerebbe. Qualsiasi competitor cinese potrebbe importare noodles cinesi e spacciarli per noodles italiani. Questo è inaccettabile. Se trasformi in Italia sei italiano. Altrimenti non sei vero made in Italy
A mio parere la sede dello stabilimento di produzione dovrebbe essere un elemento indispensabile per una corretta informazione al consumatore; anche l’origine delle materie prime utilizzate dovrebbe essere ancora più importante. Ritengo che il 100% dell’origine dovrebbe intendersi produzione materie prime e trasformazione nello stesso territorio, almeno nazionale.