Il sistema australiano e neozelandese delle etichette nutrizionali con le stelle, che prevede un punteggio da 0,5 a cinque, sta funzionando, perché da quando è stato introdotto su base volontaria nel 2014 ha indotto alcune aziende – quelle che vendevano i prodotti peggiori – a migliorare le ricette. Potrebbe tuttavia funzionare molto più, se fosse reso obbligatorio.
Questa la conclusione cui è giunto uno studio che ha analizzato l’andamento della composizione di quasi 59 mila alimenti di 14 tipologie, venduti in quattro delle principali catene di supermercati neozelandesi e nei punti vendita Aldi, Coles, IGA e Woolworths australiani tra il 2013 al 2019. I risultati sono stati pubblicati su PLoS Medicine dai ricercatori dell’Università di Melbourne, di Auckland e del George Institute for Global Health.
In effetti, si è visto come le aziende che hanno deciso di apporre le stelle sulla parte frontale delle confezioni avevano un probabilità più alta di migliorare la composizione degli alimenti fino a guadagnare almeno 0,5 punti, pari al 6,5% per le aziende australiane e al 10,7% per quelle neozelandesi coinvolte. In questo paese, poi, la quantità di sale è scesa del 4% nei prodotti “stellati”, e in Australia dell’1,4%, mentre quella di zucchero è calata, rispettivamente, del 2,3% e dell’1,1%, sempre nei prodotti contrassegnati.
Un dato importante è stato quello relativo al tipo di alimenti che hanno tratto maggiori benefici, perché sono stati quelli più scadenti. In Australia, i prodotti che avevano un punteggio compreso tra 0,5 e 1,5, hanno perso in media 14 kJ di energia ogni 100 grammi (pari all’1,3% del totale), mentre quelli che avevano in partenza 4-5 stelle sono rimasti immutati, e lo stesso si è verificato in Nuova Zelanda. È rimasto sostanzialmente stabile anche il contenuto in proteine.
Si è poi visto che oltre il 35% dei prodotti a 4 o 5 stelle presentano l’etichetta nutrizionale sulla confezione in entrambi i Paesi, mentre solo il 15% degli alimenti e bevande con meno stelle (due) la utilizzano in tutti e due.
Per spiegare ancora meglio che cosa significhi tutto ciò, gli autori hanno citato tre esempi: un tipo di cracker molto popolare oggi ha il 6% di grassi e il 10% di sodio in meno rispetto a quando vi sono state introdotte le stelle, nel 2016, e per questo, nel frattempo, ha guadagnato mezza stella. Lo stesso, soprattutto per quanto riguarda il sodio, è successo a molte zuppe pronte, che grazie alla diminuzione del sale sono passate da 3 a 3,5 stelle, mentre un famoso marchio di salsa barbecue nel 2017 ha inserito le stelle e, contestualmente, annunciato una riduzione dello zucchero di 4,5 grammi ogni 100, pari a un taglio del 9,6%.
Gli effetti visti sono di piccole dimensioni, e il tipo di analisi fatta non dice se poi effettivamente gli alimenti migliori siano stati acquistati di più o di meno, ma – hanno sottolineato gli autori – se rapportati alla popolazione e, soprattutto, all’eccesso di nutrienti e calorie che ogni abitante assume ogni giorno, potrebbero avere conseguenze significative. Le quali, naturalmente, potrebbero essere di entità ben diversa se la valutazione nutrizionale fosse obbligatoria per tutti. Al momento, invece, le normative non prevedono neppure grandi incentivi per le aziende che decidano di indicare le stelle.
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Giornalista scientifica