Etichetta di origineDa una settimana ormai si assiste al tormentone televisivo della nuova legge sull’etichetta di origine. Si proclama ai quattro venti che il testo è stato approvato per acclamazione unanime dei deputati italiani, che le nuove regole saranno presto operative, che la loro applicazione non avrà alcun costo, e che grazie a loro i consumatori saranno più sicuri. I microfoni di chi prova a integrare queste “mezze verità” si spengono: perché il ripetitore è “bi-partisan” e il messaggio risulta solo uno. Su questa vicenda vi sono però altri elementi che vale la pena di mettere in luce:

Sicurezza

Già a partire dal 1° gennaio 2005 tutti gli operatori della filiera alimentare e dei mangimi devono tenere registro delle merci in ingresso e dei rispettivi fornitori, nonché dei prodotti in uscita e dei clienti (con esclusione dei consumatori finali, per evidenti ragioni di “privacy”). E’ la c.d. rintracciabilità, introdotta nell’intera Europa dal regolamento CE n. 178/02 (articolo 18) con il preciso scopo di consentire alle autorità sanitarie di risalire a monte della filiera (produzione agricola primaria, mangimi), per individuare la causa di qualsivoglia criticità relativa alla sicurezza dei prodotti, e discendere a valle (grossisti, distributori) per mitigarne gli effetti.

Inserire in etichetta il Paese di provenienza di un alimento o delle sue materie prime non aggiunge nulla in termini di sicurezza, perché gli operatori già registrano informazioni di maggior dettaglio (es. date di ricevimento delle merci e di consegna dei prodotti, codici di lotto o di partita, nomi indirizzi e recapiti di fornitori e clienti, etc.), e questi registri sono a disposizione delle autorità sanitarie. Non è vero quindi  che grazie alla nuova legge sull’origine le materie prime sono più controllate, né che quelle italiane sono “più sicure” di quelle di altri Paesi.

Nell’ Unione Europea è fatto divieto di commercializzare prodotti alimentari o mangimi a rischio, proprio in base a questo regolamento CE n. 178/02 (articolo 14). I controlli sono eseguiti in modo indifferenziato sulle materie prime, i semi-lavorati e i prodotti finiti, quale che ne sia l’origine. A ulteriore garanzia dell’efficacia dei controlli la Commissione europea si premura anche di “controllare i controllori”:  i funzionari del “Food & Veterinary Office” europeo svolgono continue missioni, nei 27 Stati membri, con l’obiettivo ultimo di assicurare uniformi ed elevati standard di sicurezza alimentare (ai sensi del reg. CE n. 882/04).

Costi

Indicare l’origine delle materie prime su tutti i prodotti alimentari trasformati ha un costo per il consumatore. L’Italia trasforma il 70% delle materie prime agricole prodotte nella nostra nazionale (il restante 30% è venduto come ortofrutta), e deve comunque importare molte materie prime. A seconda delle filiere, spesso mancano le quantità (anche perché le produzioni sono continuative, ma i raccolti sono stagionali), le varietà (tropicali e non solo) e a volte anche le qualità richieste dalle imprese di trasformazione. In aggiunta, i fenomeni climatici (es. siccità, alluvioni) e le continue oscillazioni dei prezzi impongono la frequente variazione degli approvvigionamenti. Ciò vale per le imprese di ogni dimensione, e giova al proposito ricordare che oltre il 90% della trasformazione alimentare in Italia è realizzato da aziende con meno di 9 dipendenti.

Oggi si compra soia in USA, domani in Argentina, dopodomani in Brasile, e così via, la stessa cosa succede per cacao, caffé, oli e molte altre materie prime. Se la nuova legge italiana venisse applicata, gli operatori dovrebbero predisporre un’ampia varietà di etichette per ciascun prodotto (es. olio soia USA, olio soia Argentina, olio soia Brasile). Con inevitabili sprechi di etichette, da cui derivano un maggior impatto ambientale e dispendio economico. Bisognerebbe poi fermare gli impianti di confezionamento ogni volta che cambia l’origine della materia prima, per sostituire i rotoli delle etichette. Non solo: in alcuni stabilimenti le materie prime sono stoccate in grandi silos che vengono colmati e scolmati a ciclo continuo. Tornando all’esempio dell’olio di soia, per poter risalire con certezza all’origine della materia prima utilizzata nella singola bottiglia bisognerebbe demolire i silos e costruire serbatoi più piccoli nei quali inserire ogni diversa fornitura, e interrompere i cicli di produzione ogni volta. Siamo sicuri che ciò non abbia nessun costo per l’ambiente, per chi produce e per chi compra?

E i consumatori, saranno davvero contenti di aggiungere qualche monetina per sapere che l’olio è stato fatto con soia argentina piuttosto che brasiliana? E qualche monetina in più, per sapere che il caffè è etiope oppure eritreo? Per loro si prospetta una scelta obbligata (spendere sempre di più per ricevere notizie il cui costo può talora rivelarsi sproporzionato rispetto alle effettive curiosità di ciascuno) quando già ora, per chi lo desidera, è già possibile scegliere prodotti sulle cui etichette i produttori hanno scelto di indicare l’origine delle materie prime, nella speranza (non sempre dimostrata) di ricavarne un vantaggio.

Applicazione della legge

L’articolo 4 della nuova legge (“Etichettatura dei prodotti alimentari”) – quello in cui si introduce l’indicazione obbligatoria dell’origine sulle etichette di tutti i prodotti – potrà venire applicato 90 giorni dopo l’emanazione dei decreti interministeriali firmati dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali e del Ministro dello sviluppo economico, d’intesa con la Conferenza tra lo Stato e le Regioni e Province autonome.

Questi decreti dovrebbero stabilire:

– le “modalità per l’indicazione obbligatoria

le “disposizioni relative alla tracciabilità dei prodotti agricoli di origine o di provenienza del territorio nazionale” (art. 4, comma 3)

i prodotti alimentari soggetti all’obbligo dell’indicazione

il requisito della prevalenza della materia prima agricola utilizzata nella preparazione o produzione dei prodotti” (art. 4, comma 3)

Riepiloghiamo: mentre la legge viene firmata dal Presidente Napolitano e pubblicata in Gazzetta Ufficiale, i Ministri preparano i decreti assieme alla Conferenza Stato-Regioni. Quando i decreti saranno pronti, si attenderanno tre mesi. Perché i decreti dovranno venire notificati alla Commissione europea, e saranno soggetti a un periodo di “stand-by” obbligatorio la cui durata ordinaria è appunto di tre mesi (salvo venire estesa, sino a un massimo di 18 mesi, ai sensi della dir. 98/34/CE e successive modifiche).

Cosa dirà la Commissione europea di questi decreti, che introducono regole diverse rispetto a quelle condivise dai 27 Stati aderenti alla UE?Cosa diranno gli operatori economici degli altri Paesi europei ai loro Governi, rispetto a una legge che costituisce fonte di maggiori spese e comporta nuove etichette?

Un ministro ha detto che si dovranno adattare, altrimenti faranno a meno di vendere i loro prodotti nel nostro Paese. Qualcun altro potrebbe però ricordare che esiste un Trattato la cui prima firma avvenne a Roma nel secondo dopo-guerra, dove si afferma il principio della libera circolazione delle merci. Un principio la cui applicazione giova a molte imprese italiane, che possono liberamente esportare i loro prodotti in Paesi che li sanno apprezzare e valorizzare, come la Germania, il Regno Unito e la Francia.

Per ora, soffermiamoci a riflettere sulle impressioni di Paola Testori Coggi, che nell’intervista di pochi giorni fa al Ilfattoalimentare.it esprime dubbi sulla compatibilità della nuova legge dell’etichetta di origine con il diritto UE.

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