Il cibo, soprattutto quello ultraprocessato, può generare una forma di dipendenza? La domanda è sul tavolo da anni, senza che sia stato possibile, finora, giungere a una risposta definitiva, per la complessità degli studi che cercano di chiarire cosa accada quando si mangiano abitualmente alimenti industriali e se si generino o meno fenomeni etichettabili come autentiche dipendenze. Eppure, la risposta è cruciale, perché in caso fosse positiva, i governi dovrebbero assumere specifiche iniziative, mentre se fosse negativa le aziende alimentari potrebbero continuare quasi indisturbate a immettere sul mercato alimenti che spingono a mangiare sempre di più e sempre peggio. Al tema la rivista Scientific American dedica un lungo articolo, che riassume lo stato attuale delle conoscenze.
Quando si osservano i comportamenti di persone e animali, sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che certi alimenti scatenino dipendenza. Per esempio, i roditori preferiscono lo zucchero alla cocaina, e affrontano anche piccole scosse elettriche pur di averne ancora, mentre alcune delle persone sottoposte a chirurgica bariatrica per l’obesità, anche dopo l’intervento continuano a cercare alimenti ricchi di zuccheri e grassi, farine bianche e burro, nonostante ciò provochi in loro vomito e diarrea. Inoltre, l’abitudine a consumare snack industriali attiva i circuiti cerebrali della ricompensa in modo simile a quello che si vede con la cocaina. Alcuni studi suggeriscono anche che i cibi ultraprocessati possano avere effetti di alterazione dell’umore: per esempio nei bambini e negli adolescenti abituati a bere molte bevande gassate e zuccherate sono stati osservati sintomi di ‘astinenza’ (mal di testa, difficoltà a concentrarsi, ecc.) quando in genitori hanno cercato di limitarne il consumo.
Uno degli elementi che rende difficilissimo giungere a una conclusione è l’enorme varietà di alimenti che mangiamo. Inoltre, a differenza di quanto accade con le droghe, l’alcol o il tabacco, non esiste una singola sostanza che ha un effetto specifico come hanno invece l’etanolo negli alcolici, la nicotina nelle sigarette o le specifiche sostanze d’abuso. Secondo diversi esperti, però, ciò che innesca le dipendenze, nel caso del cibo ultraprocessato, non sono tanto i singoli composti, ma la loro associazione e soprattutto il fatto che i grassi, gli zuccheri e il sale sono presenti in quantità enormi rispetto agli alimenti naturali e in combinazioni appositamente studiate con gli additivi per provocare una sensazione di appagamento. Nella frutta, per esempio, gli effetti degli zuccheri, già presenti in quantità minori, sono comunque mitigati dalle fibre e da altre sostanze. Negli ultraprocessato invece gli zuccheri sono spesso miscelati con i grassi, che non solo non ne contrastano in alcun modo gli effetti, ma questa associazione sembra attivare i circuiti nervosi della ricompensa in modo estremamente rapido ed efficiente.
Una possibile conferma di tutto questo si troverebbe in uno studio in cui è emerso che le persone con disturbi del comportamento alimentare, durante gli episodi di binge eating consumavano esclusivamente ultraprocessati con zuccheri e grassi. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 e condotto su un’ottantina di volontari che dovevano bere ogni giorno per diverse settimane un milkshake ricchi di grassi e zuccheri oppure uno a basso tenore di zuccheri e grassi, solo chi aveva consumato il primo mostrava modifiche in una delle zone cerebrali più coinvolte, quelle del nucleo striato, sempre più attive. Lo stesso si vede con la Pet (tomografia a emissione di positroni) usata per studiare il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore a sua volta coinvolto nelle dipendenze. Il consumo di un milkshake scatena il rilascio di quantità di dopamina che sono circa un terzo di quelle che si vedono con le amfetamine. Oltre alla dopamina, poi, ci sono i cannabinoidi naturali, che entrano in gioco per esempio quando si mangia cioccolato. E, come dimostra l’efficacia degli antidiabetici in chiave antiobesità, c’entra anche il circuito dell’ormone GLP-1, bersaglio dei farmaci come la semaglutide, i cui recettori sono presenti anche nel cervello. Non a caso, si stanno studiando questi stessi farmaci contro le dipendenze. Infine, un altro studio ha mostrato, con la risonanza magnetica funzionale eseguita su persone che osservavano immagini di sostanze stupefacenti o di ciambelle, come le aree del cervello che si attivano siano le stesse: difficile dubitare del fatto che si possa instaurare una dipendenza.
Nel 2009, gli esperti dell’Università di Yale hanno sviluppato una scala che definisce la dipendenza da cibo e, basandosi su di essa, una metanalisi condotta su 272 studi ha dimostrato che circa il 20% della popolazione mostra tutte le caratteristiche di una vera dipendenza da cibo industriale. Le persone che rientrano nella definizione, inoltre, affermano di mangiare spesso fino a sentirsi male, e di provare tutti i sintomi tipici dell’astinenza, comprese gravi conseguenze sulla vita sociale. Tra l’altro, questo confermerebbe che la dipendenza da cibo, in realtà, è una condizione non troppo diversa dal disturbo da alimentazione incontrollata (o binge-eating), che comporta profonde alterazioni degli equilibri tra neurotrasmettitori. Secondo gli scettici, invece, per definizione non è possibile essere dipendenti da qualcosa che è essenziale alla vita e un hamburger non induce i picchi tipici delle droghe o dell’alcol. Tuttavia, secondo altri, gli ultraprocessati rientrano pienamente nella definizione di sostanza che può indurre dipendenza data nel 1988 dall’ordine dei medici statunitensi, in riferimento, allora, al tabacco.
La questione è cruciale, perché molti studi sponsorizzati dalle aziende tendono a escluderlo, sottolineando poi che non vi sono certezze, come hanno fatto con i danni associati al tabacco, che sono rimasti in secondo piano per decenni proprio grazie a questo tipo di strategia. Ma dal momento che una metanalisi italiana del 2021 ha mostrato che gli alimenti ultraprocessati aumentano la mortalità del 25%, secondo Ashely Gearhardt dell’Università del Michigan, autrice di alcuni degli studi citati, è meglio rischiare di classificare erroneamente qualche ultraprocessati come capace di creare dipendenza, piuttosto che continuare a non fare nulla, neppure a indicare la loro pericolosità, esattamente come è accaduto con le sigarette per decenni.
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Giornalista scientifica