
Dopo quella la dieta del paoleolitico e quella Mediterranea, un’altra potrebbe diventare popolare: la dieta africana. E potrebbe essere un bene, dal punto di vista della salute e anche da quello dell’ambiente, perché il regime proposto è basato sulle stesse tipologie di alimenti che raccomandano le linee guida, a prescindere dalla latitudine. E cioè: molti vegetali e legumi, zero o quasi proteine animali, pochissima lavorazione, alimenti fermentati.
La dieta africana
L’idea di un confronto tra una dieta occidentale, incentrata su alimenti e pasti pronti e quasi sempre ultra processati, e una tradizionale, in questo caso della Tanzania, è stata stimolata dal fatto che, vista la crescente urbanizzazione e il degrado dell’ambiente, sempre più abitanti delle campagne e del bush del Paese africano si spostano nelle città. E lì iniziano i guai, perché quasi sempre la loro salute peggiora, e assomiglia via via sempre di più a quella degli occidentali che combattono con diabete, obesità e simili patologie associate allo stile di vita.
Per verificare le conseguenze sull’organismo dei due tipi di alimentazione, i ricercatori della KCMC University di Moshi, in Tanzania, in collaborazione con i colleghi della Radboud University olandese, hanno reclutato 77 volontari, tutti sani al momento dell’inizio della sperimentazione, in parte residenti nei centri rurali del Nord della Tanzania, nella zona del Kilimangiaro, e in parte negli agglomerati urbani. Quindi hanno chiesto a dieci di loro di non modificare nulla, e hanno avviato gli altri a un tipo di dieta, oppure all’altra, per due settimane, invertendo poi il gruppo di appartenenza. Infine, hanno chiesto a una parte chi seguiva abitualmente una dieta occidentale di aggiungere, alla prima settimana, una bevanda a base di banana fermentata tipica della cucina tradizionale chiamata mbege, per poi tornare alle proprie abitudini.
Le diete
Nell’articolo, pubblicato su Nature Medicine, sono state pubblicate le fotografie di alcuni degli alimenti tipici della cucina tanzanese e, per confronto, di ciò che si trova nelle città. Per la prima colazione c’è un porridge di miglio con latte fermentato e taro (Colocasia escluenta, un tubero). Per i pasti principali ci sono l’ugali, una polenta piuttosto solida con cassava e mais, l’okra (Abelmoschus aesculentus), verdure verdi assortite (mchicha) e ananas, oppure il kiburu, fatto con banane verdi bollite, fagioli e avocado. Infine, come bevanda si può bere lo mbege, la birra artigianale ottenuta da banane e miglio fermentati data anche al gruppo di volontari.

Le corrispettive foto per la dieta occidentale presentano, per la colazione, pancake, salsicce, pane bianco, burro o margarina e marmellata, per i pasti principali un piatto chiamato Chipsi mayai, che contiene patatine fritte con uova, pollo, maionese e ketchup e, come dolce biscotti farciti.
I parametri misurati
In tutti i partecipanti sono stati misurati i marcatori dell’infiammazione e i principali parametri metabolici all’inizio, alla fine della dieta di appartenenza e dopo quattro settimane, e le differenze sono apparse subito evidenti, in entrambi i sensi. Passare da una dieta tradizionale a una occidentale significa avere un immediato rialzo delle citochine pro-infiammatorie, dei marcatori associati alle malattie metaboliche tipiche del benessere e di quelli che segnalano cambiamenti nel microbiota.
E viceversa; coloro che erano già abituati ad alimenti ultra processati, hanno avuto un beneficio evidente già dopo i primi giorni che, per alcuni dei marcatori misurati, è rimasto stabile nel tempo, ed era visibile anche dopo un mese. Lo stesso si è visto con l’aggiunta del mbege, a conferma del fatto che cibi e bevande fermentate possono avere un’efficacia nutrizionale notevole.
Una conferma indiretta è giunta poi da un altro studio uscito negli stessi giorni su Gut Microbes. Analizzando il microbiota di oltre 1.100 ghanesi, un terzo dei quali residenti in zone rurali, un terzo in aree urbane e un terzo in Olanda, i ricercatori delle Università di Komasi, in Ghana, e di Amsterdam, in Olanda, hanno dimostrato che ognuno dei tre gruppi ha un suo microbiota specifico, e che quando una persona si muove dalla campagna alla città esso cambia, e non in meglio. Aumentano le specie pro-infiammatorie e quelle associate alle patologie cosiddette da benessere, e peggiora in generale la salute.
I risultati
Gli autori hanno messo in rilievo soprattutto tre aspetti di quanto ottenuto: la potenza di un’alimentazione come quella africana, che in sole due settimane può modificare sensibilmente la situazione infiammatoria e metabolica di un organismo sotto stress a causa della dieta troppo ricca di grassi saturi, sale, additivi, amidi e zuccheri raffinati, carne. I danni dell’alimentazione cosiddetta occidentale, scatenati dopo poche ore dall’ingestione di alcuni tipi di prodotti. E, non da ultimo, le potenzialità del cibo africano. L’Africa è molto grande, e ogni zona ha le sue tradizioni, che dipendono strettamente dal clima e dalle piante che vi crescono.
Andando verso temperature sempre più calde e verso climi aridi, è importante studiare meglio le abitudini di popolazioni adattatesi a quel tipo di condizioni per millenni, per trovare nuove piante e in generale nuove risorse alimentari da sfruttare anche in altri paesi (coltivandole in loco, possibilmente).
Se la dieta occidentale diventasse un po’ più africana, il pianeta sarebbe sottoposto a minori pressioni per aumentare la resa di produzioni non più adeguate alla situazione attuale, e la salute ringrazierebbe.
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Giornalista scientifica
Ma certo che mangiare quella l’immondizia che gli han dato spacciandola come dieta occidentale invece che come dieta industriale anche altre diete considerate nocive dalla comunità scientifica potrebbero essere di giudicate migliori E comunque da quello che ho capito il male di queste diete etniche e che fanno lievitare di molto i prezzi di questi cibi a scapito a scapito delle comunità originali
Non ho letto la ricerca ma ho letto l’articolo , e da quello che se ne desume la dieta occidentale sarebbe qualcosa di simile a quella americana, simile perché mai ho visto qualcuno fare un simile mappazzone a colazione, sarebbe interessante anche conoscerne le dosi per poter fare paragoni, detto ciò come ricerca mi sembra davvero scadente ed ideologica.
Non mi meraviglio se nello studio come dieta occidentale viene utilizzata una miscela di cibi ad alta concentrazione calorica.
Anche se a qualcuno suona stonato nel mondo US/anglosassone ( ma anche in Germania ) le colazioni/pranzi e cene tradizionali sono così…. magari, quando va bene, con qualche piccola aggiunta di vegetali.
Conosco molte persone che considerano le marmellate, i succhi di frutta, il succo di pomodoro e le patatine le uniche forme vegetali esistenti.
Noi, che abbiamo ereditato ( e rinnegato sostanzialmente ) la dieta mediterranea, nel mondo occidentale siamo minoranza e nonostante la vecchia saggezza gradatamente stiamo andando alla deriva verso la maggioranza.
Invece dovremmo avere già capito le fregature della dieta occidentale che questo studio ci sbatte in faccia, ma essendo noi un gregge di ipnotizzati, pigri, distratti, frettolosi con il palato drogato, credo che pochi capiranno i punti di forza di queste diete indigene africane.
Forse manca un dato, aspettativa di vita di coloro che seguono questa dieta africana.
Se posso permettermi l’articolo è fuorviante: si vuol comparare una dieta occidentale “insana” che a quanto ne so non rientra in nessun piano alimentare appunto sano (ketchup? salsicce? margarina? patatine fritte??? PRODOTTI INDUSTRIALI?????) con una dieta africana che usa prodotti naturali e vegetali? A parte che mi sa molto di radical-chic, ma che valenza scientifica può avere?
Aspettativa di vita negli Stati Uniti circa 79 anni, Tanzania 65.