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Negli ultimi decenni, gran parte delle associazioni tra alimenti e bevande ed eventuali effetti sulla salute, come l’aumento del rischio di sviluppare una malattia o, viceversa, una possibile azione preventiva, sono state dedotte da studi che partivano da ciò che i partecipanti riferivano di aver mangiato o bevuto durate la giornata. Diari alimentari e questionari da compilare più o meno quotidianamente sono stati impiegati in centinaia di ricerche che hanno coinvolto molte migliaia di persone. Pur non potendo fornire una prova diretta dell’esistenza di un rapporto di causa ed effetto, i risultati mettevano comunque in evidenza una relazione, che spesso costituiva una base per approfondimenti e ricerche progettate ad hoc, con gruppi di controllo e con protocolli studiati per capire con esattezza se una certa ipotesi fosse vera.
Da tempo, però, numerosi esperti criticano tale approccio, sottolineando come non si possa fare affidamento su ciò che le persone affermano, perché troppo spesso mentono, oppure ricordano male o, comunque, non riferiscono correttamente tutto ciò che assumono durante il giorno. E ora uno studio pubblicato su Nature Food da due esperti della School of Food Science and Nutrition dell’Università di Leeds, nel Regno Unito, conferma quanto la metodologia che si basa sul self reporting, cioè su lasciare che siano i diretti interessati a indicare ciò che mangiano e bevono, sia discutibile.
Diari alimentari inaffidabili
Per capire quale fosse il tasso di corrispondenza tra ciò che gli individui riferiscono e ciò che accade, i ricercatori britannici hanno messo a punto un’equazione capace di stimare con grande precisione il dispendio energetico. Nello specifico, si sono serviti dei dati ottenuti con un approccio considerato affidabile, quello dell’acqua doppiamente marcata o DLW (double labeled water), basato sull’assunzione di acqua debolmente radioattiva, nella quale si possono valutare le percentuali di ossigeno e idrogeno consumate. Quella di idrogeno non cambia con la dieta, ma quella di ossigeno sì, perché l’ossigeno è impiegato dall’organismo per metabolizzare il cibo e produrre CO2. Pertanto, per capire quanto una persona ha mangiato o bevuto, basta valutare le percentuali reciproche dei due elementi.
In questo caso, gli autori hanno preso i dati di analisi DLW relative a 6 mila persone di età compresa tra i quattro e i 96 anni, e hanno ricavato appunto un’equazione basata su età, peso e genere per calcolare consumi energetici medi. Quindi hanno applicato l’equazione ai dati di riportati nei questionari del grande studio di popolazione National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), condotto negli USA, e a quello, analogo, effettuato nel Regno Unito, il National Diet and Nutrition Survey (NDNS), per vedere la corrispondenza tra quanto annotato dai partecipanti e i calcoli dell’equazione.
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La risposta è stata clamorosa: nel caso del NHANES, più del 50% degli adulti aveva riferito consumi inferiori a ciò che, in base all’equazione, avrebbero dovuto assumere, e nel caso dell’NDNS la percentuale è salita addirittura al 60%. Inoltre, alcuni tipi di alimentazione come le diete ad alto contenuto di proteine si sono rivelati più suscettibili di errore.
I commenti dei ricercatori
La rivista Science ha interpellato numerosi esperti, chiedendo loro di commentare i risultati e, più in generale, l’affidabilità degli studi basati sul self reporting, e ha ottenuto pareri molto diversi. Secondo Gary Frost, nutrizionista dell’Imperial College di Londra, poiché le politiche di sanità pubblica, le linee guida e le raccomandazioni sull’alimentazione sono incentrate sui risultati degli studi, è ora di trovare metodi più solidi per capire che cosa mangiano le persone.
Dello stesso parere è David Allison, biostatistico e ricercatore nel campo dell’obesità della School of Public Health dell’Università dell’Indiana di Bloomington, che già nel 2014 proponeva di abbandonare del tutto questi metodi. La pensa così anche uno dei coautori dello studio, John Speakman dell’Università di Aberdeen, che ritiene che l’inaffidabilità del self reporting spieghi alla perfezione perché, spessissimo, le ricerche di questo tipo giungano a risultati contraddittori: un certo alimento o bevanda secondo alcuni fa bene, secondo altri fa male.
Non tutti sono d’accordo
C’è però anche l’altra campana, e cioè quella di chi rimarca il fatto che i risultati considerati negli anni derivano da studi che hanno coinvolto popolazioni molto grandi, spesso di decine o centinaia di migliaia di persone: questo avrebbe assicurato loro la forza statistica necessaria, anche al netto delle sottovalutazioni o degli errori. Secondo Walter Willett, epidemiologo e nutrizionista della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, tuttavia, la tecnica dell’acqua doppiamente marcata è a sua volta insoddisfacente, perché i dati cambiano a seconda di troppe variabili come, per esempio, l’attività fisica. Quanto emerso sarebbe dunque a sua volta debole.
![Nutrizionista al computer scrive piano alimentare; concept: dietista, medico, biologo](https://ilfattoalimentare.it/wp-content/uploads/2019/07/biologa-nutrizionista-diete-online-AdobeStock_244759001.jpeg)
Infine, ci sono posizioni intermedie, come quella dei coordinatori dello studio NHANES, che ricordano come il problema sia molto sentito da chi elabora i dati, e come le istruzioni per chi partecipa siano studiate per cercare di aiutarli a limitare gli errori. Lindsay Jaacks, epidemiologa e nutrizionista dell’Università di Edimburgo afferma che, per il momento, il self reporting è il migliore metodo possibile. Tuttavia, ciò che i partecipanti omettono, riconosce la ricercatrice, rappresenta un grande limite, più che altro perché non è dato sapere quali siano gli alimenti o le bevande che escono dai radar. Ovviamente, un conto è se si tratta, per esempio, di ultra processati o bevande zuccherate, un altro conto è se qualcuno non riferisce uno snack a base di carote o mele fresche.
Le alternative ai diari alimentari
Da tempo si cercano alternative, ma non è facile capire come ottenere resoconti fedeli alla realtà. Un passo in avanti, analizzato in uno studio, sono i diari fotografici: le persone mandano fotografie dei pasti ai responsabili dello studio, che ne stimano i contenuti energetici e nutrizionali. Ciò migliora la classificazione di cibi e bevande, ma non risolve il problema della sottorappresentazione: la trasmissione dei dati dipende, ancora una volta, dalla disciplina di chi partecipa. Una variante, anch’essa oggetto di indagini sono le webcam da indossare o, sfruttando ulteriormente la tecnologia, i sensori da posizionare in cucina. Infine, c’è chi sta cercando di prendere la questione da un punto di vista più fisiologico, studiando possibili marcatori delle urine che aiutino a stabilire che cosa una persona ha mangiato o bevuto.
Per ora, tuttavia, nessuno di questi approcci è stato convalidato e nessuno di essi potrebbe essere applicato ai grandi numeri degli studi basati sui diari alimentari e i questionari. Ciò che emerge, al di là delle sfumature, è quindi la necessità di mettere a punto metodi realmente alternativi, più affidabili e applicabili con facilità anche a grandi popolazioni di persone.
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Giornalista scientifica
Certo che andare del medico e mentire è drammatico. O una persona non sta bene mentalmente e allora è comprensibile oppure è un cretino che si dà la zappa sui piedi ed è contento quando sbaglia…