C’è un documento uscito dalla COP 28 appena conclusasi a Dubai, sottoscritto da 134 paesi, sul quale è stata espressa un’unanime soddisfazione: quello che riguarda la produzione di cibo, il suo ruolo nella crisi climatica, e che cosa fare per mitigarlo.
Per la prima volta, infatti, quel tipo di assise ha recepito e fatto suo ciò che gli esperti del settore e tutti coloro che studiano gli effetti delle attività antropiche sull’ambiente ripetono da anni. Il sistema alimentare, per come si è andato configurando dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, va abbandonato o, quantomeno, modificato radicalmente. È infatti incompatibile con la situazione attuale, di cui è uno dei responsabili principali. I governi sottoscrittori si impegnano quindi a inserire politiche specifiche attive nei prossimi piani.
Il rapporto, intitolato “Che cosa cucinare? Valutazione dei potenziali impatti di alcune selezionate fonti alternative di proteine rispetto a quelle animali convenzionali”, ribadisce innanzitutto un obbiettivo chiaro: ridurre del 50% il consumo di carne entro il 2050. Per raggiungere tale meta, indica tre ambiti da valorizzare e sostenere (con buona pace del governo italiano e di Coldiretti), e cioè le nuove carni a base vegetale, le carni coltivate e gli alimenti ottenuti tramite fermentazione (per esempio da lieviti), e quindi sintetici (nell’accezione corretta del termine).
Sostenibilità e sistemi alimentari
Com’è noto, la produzione di cibo è responsabile di un terzo delle emissioni e queste sono causate al 60-70% dal sistema degli allevamenti intensivi nel suo complesso. In totale, il 14,5-20% delle emissioni di gas serra arriva da queste fonti.
La diminuzione delle proteine convenzionali è poi necessaria, si legge, si se vogliono ridurre il degrado ambientale e la deforestazione, proteggere la biodiversità, abbassare le emissioni di gas serra, limitare il consumo di acqua e di suolo, diminuendo al contempo le contaminazioni, e contribuire a contenere la diffusione della resistenza agli antibiotici, limitando al tempo stesso il pericolo di nuove pandemie e spillover, cioè salti di specie di patogeni.
Infine, è indispensabile per avere maggiore rispetto del benessere animale, e per avere prodotti migliori di quelli tradizionali perché più controllati e più sani.
Una realtà multiforme
Il documento della COP 28 rappresenta una guida verso questo genere di transizione, e invita i governi a gestire i cambiamenti, preservando il più possibile i posti di lavoro, tenendo presente la sicurezza alimentare, e il destino degli allevamenti attuali.
Inoltre, visto che esistono enormi differenze tra Paesi e anche tra regioni, sia per le specificità geografiche, sia per le condizioni delle filiere, è importante adattare le soluzioni alle realtà, cercando di approfittare della transizione per ridurre le disuguaglianze sociali e tra aree del mondo.
Inger Andersen, direttrice del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente UNEP (United Nations Environmental Program), così ha presentato il report: “Le nuove fonti proteiche alternative possono offrire alle persone una quantità di nuove opzioni alimentari, mentre contribuiscono a ridurre la pressione della produzione di cibo sull’ambiente. In questo ambito dobbiamo infatti affrontare una crisi tripla: quella del cambiamento climatico, quella del degrado ambientale e della perdita di biodiversità, e quella dell’inquinamento dovuto ai rifiuti delle produzioni di massa e dello spreco. Al tempo stesso, dobbiamo affrontare le conseguenze dell’agricoltura intensiva sulla salute. Per far sì che le nuove tecnologie arrivino ovunque, sono necessari il supporto dei governi e il sostegno alla ricerca, che deve essere il più possibile trasparente”.
Il modello di sviluppo e la salute
Il documento non ignora il fatto che, per molti paesi, soprattutto a un livello di sviluppo medio-basso, le proteine animali ottenute con i metodi classici rappresentano ancora un elemento centrale della dieta, ma invita quei paesi a non cercare di adeguarsi al modello di quelli più sviluppati, che si deve abbandonare. Il Pianeta non si può più permettere di allevare e macellare miliardi di animali ogni anno, e non solo per le sofferenze imposte loro, ma anche per questioni fondamentali relative alla salute umana.
Il consumo di carni rosse lavorate è eccessivo quasi ovunque, e questo aumenta significativamente il rischio di tumori, di patologie cardiovascolari, diabete e obesità. Inoltre, il 73% di tutti gli antibiotici prodotti nel mondo è utilizzato in ambito veterinario, ed è responsabile, in misura proporzionale, dell’aumento delle resistenze. Il sistema degli allevamenti intensivi spiega perché si assista a una sempre più rapida diffusione di patologie quali l’influenza aviaria, la peste suina africana e lo stesso Covid, e perché non sia più possibile mantenerlo così com’è.
I dubbi da chiarire
C’è naturalmente molto lavoro da fare, per migliorare le alternative. Per esempio, i sostituti vegetali della carne in alcuni casi sono, a tutti gli effetti, ultra processati e contengono troppi grassi e sale, mentre per quanto riguarda sia le carni coltivate sia quelle sintetiche i dati sono ancora pochi. Inoltre, per favorire il passaggio a questo tipo di proteine, è necessario lavorare sul gusto e sulla palatabilità, come pure sul costo e sulla cultura alimentare e soprattutto sull’accettazione sociale, affinché i nuovi alimenti siano ben accetti.
L’impianto economico
Cambiare modello economico e di sviluppo in tempi rapidi non è banale. Per tale motivo, il rapporto invita a varare incentivi economici, sgravi fiscali, investimenti pubblici, sussidi e tutto ciò che può essere utile a rendere il cambiamento conveniente, o almeno accettabile, compreso il sostegno ai piccoli allevatori, quando necessario. Al momento gli investimenti sono di circa otto miliardi, guidati dagli Stati Uniti e da Israele, ma con paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Svezia, la Spagna e l’Olanda in primo piano, e altri come il Cile che hanno deciso di puntare su proteine alternative. L’Italia ovviamente è assente.
Inoltre lo stesso si dovrà fare a livello internazionale, armonizzando le normative sul commercio e quelle sulla sicurezza alimentare. Una sezione riporta lo stato normativo attuale (e, di nuovo, l’Italia è assente, perché la sua legge sulla carne coltivata non ha alcun valore in uno scenario internazionale, mentre ne hanno quelle europee).
Il documento illustra, in un’ottantina di pagine molto chiare e comprensibili, e piene di schemi, numeri e disegni, tutti i dati e le stime più accreditate oggi disponibili, e probabilmente questo è il suo valore principale. Da oggi sarà molto più difficile, per i negazionisti e per le lobby della carne, sostenere posizioni irrealistiche e non comprovate da dati scientifici.
Forse la COP 28 è stata un fallimento per quanto riguarda l’energia (le interpretazioni delle conclusioni sono di vario tipo), ma certamente non lo è stata per la parte relativa al ruolo del cibo nella crisi climatica, e a cosa fare per mitigarlo.
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Giornalista scientifica
Io mangio pochissimi etti di carne a settimana. Qui si andrà a finire come negli anni ’70 quando ci fu un martellamento assoluto sull’incremento della popolazione mondiale, e io da giovincello credevo che fosse colpa di noi italiani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, scompariremo.
Lo stesso credo che avverrà per la carne di grossi animali. Non importa se allevati eticamente, saranno sempre meno, e il mondo altrove sarà ancora più pieno di robaccia.
Un paese “sviluppato” ha problemi differenti da quelli in crescita o tutto sommato refrattari.