Il mondo produce più cibo che mai, e in molti paesi la malnutrizione dovuta all’insufficiente apporto nutrizionale è diminuita molto, o è stata sconfitta. Eppure il cibo è ancora il primo responsabile dei decessi attribuibili a malattie non trasmissibili. Secondo le stime, nel 2017 il fumo ha causato 7 milioni di morti, l’alcol 2,75 milioni e la cattiva alimentazione 12 milioni. Com’è possibile? Si chiede, sul Guardian, una delle più importanti giornaliste e scrittrici di food britanniche, Bee Wilson, in un lungo e circostanziato articolo. La risposta è complessa, ma secondo Wilson una delle cause principali risiede nelle strategie di marketing delle aziende, che negli ultimi decenni hanno condotto i consumatori di tutto il mondo a una dieta sempre più ricca di calorie vuote e sempre più obesogena.
Per spiegare che cosa significhi, Wilson fa l’esempio dell’uva: si tratta di un frutto presente in tutto il mondo e disponibile in qualsiasi stagione che però viene coltivata in pochissime varietà, tutte molto dolci e senza semi. Non esiste quasi più una grande varietà di gusti aspri e poco dolci, come era normale pochi anni fa. Un analogo discorso si può fare per le banane: quella che troneggia sulle tavole di tutto il mondo è una sola, la Cavendish.
Wilson sottolinea che una parte delle strategie che hanno portato a questa situazione, è da ricercare nell’abilissimo occultamento delle responsabilità da parte delle multinazionali del junk food e della ristorazione a basso prezzo. Si lascia credere che la colpa sia dei consumatori, come se non ci fosse alcuna influenza esterna da parte della pubblicità e delle campagne di informazione orientate (come quella di cui molto si discute negli USA, secondo cui la colpa dell’obesità sarebbe attribuibile alla mancanza di attività fisica e non al consumo di bevande dolcificate).
Ma i numeri raccontano una storia diversa e inchiodano le aziende e le politiche espansive sempre più aggressive, alle loro responsabilità. Per esempio, le vendite di cibo classificato come fast food nel periodo tra il 2011 e il 2016 sono aumentate del 30% (nel 2016, ogni sette ore, da qualche parte nel mondo è stato aperto un nuovo Domino’s Pizza).
E poi c’è l’avanzamento inesorabile del cibo già pronto (che copre il 57% delle calorie assunte dagli americani e il 50% di quelle preferite dagli inglesi), quasi sempre pieno di grassi, aromatizzanti, additivi e troppe calorie, spesso accompagnato da bevande zuccherate o alcoliche.
Per avere un’ulteriore prova basta analizzare i regimi alimentari di tutto il mondo. I più sani non sono quelli dell’estremo oriente (Giappone), o quelli dell’area mediterranea, ma quelli dell’Africa sub-sahariana, dove ancora la carne è scarsa e altri alimenti come certi legumi e alcuni tipi di cereali sono predominanti, e non c’è un problema di eccesso di cibo industriale né di quantità.
E ancora: che dire della Cina? Fino a pochi anni fa nessuno consumava cibo al di fuori dei pasti, perché tradizionalmente si beveva del tè. Nei primi anni duemila è iniziata la pubblicità delle merende a base di frutta e degli snack ipercalorici che adesso si trovano dappertutto creando un mercato da 7 miliardi di dollari. Risultato: il peso medio della popolazione è iniziato a lievitare e oggi anche la Cina deve fare i conti con tassi di obesità galoppanti tra bambini e adulti.
Che fare? Wilson indica come modello quello della città di Amsterdam, che dal 2012 al 2015 ha ridotto l’obesità infantile del 12% grazie all’Amsterdam healthy weight programme (AHWP). Questo progetto agisce su diversi fronti. Nella città è vietata la pubblicità di junk food e le sponsorizzazioni degli eventi sportivi dei ragazzi così come la possibilità per gli studenti di offrire dolci e caramelle per festeggiare a scuola (è permessa solo la frutta, la verdura e qualche cubetto di formaggio). Un altro aspetto interessante è l’aumento della disponibilità di fonti di acqua pubblica. Ciò che funziona, conclude Wilson, è l’idea del programma, ovvero aumentare la consapevolezza dei cittadini e aiutarli a scegliere liberamente come cambiare alimentazione.
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Giornalista scientifica
Non finiremo mai di sottolineare il fatto che l’educazione al gusto e alla curiosità verso le produzioni agricole (intendo anche frutta, ortaggi e legumi) fin da giovani è alla base di un’impostazione di una dieta dove predomina la consapevolezza del gesto “mi nutro”; e che vede il junk food limitato a particolari fasi del ciclo di vita o a un’eccezione.
Costruire contesti di consapevolezza del consumo alimentare, sostenibile per me come soggetto ma pure per l’ambiente, rimane la grande sfida culturale e politica.
Nel frattempo vanno bene tutti i dispositivi e le misure che spingono in quella direzione, anche le più banali come evitare l’esposizione di merendine e dolciumi alle casse dei supermercati; anche se queste misure sono caratterizzate da precarietà, per gl’interessi che spingono a ribaltarli o a svuotarli di significato o d’incisività.