Le grandi multinazionali del tabacco hanno nascosto per anni gli studi che dimostravano, in modo sempre più inequivocabile, i danni associati al fumo e anzi, hanno cercato e trovato strategie commerciali che massimizzassero le vendite, oltre a ingredienti come aromi e coloranti che legassero sempre più strettamente il consumatore alle sigarette, grazie alla dipendenza indotta. Quando però, negli anni Ottanta, hanno iniziato a essere chiamate a rispondere dei loro comportamenti e a essere sottoposte a restrizioni sulla pubblicità, hanno diversificato l’investimento degli immensi profitti che stavano accumulando, puntandone una porzione rilevante nell’industria alimentare. Lavorando con molta discrezione, senza farsi riconoscere, hanno via via acquisito pacchetti azionari che li hanno resi partner importanti di alcune aziende, al punto da poter trasferire al cibo e alle bevande lo stesso approccio commerciale che avevano impiegato per decenni con le sigarette. Così, in quel periodo, la Philip Morris fabbricava le sigarette Marlboro e Virginia Slims, ma anche i maccheroni Kraft e le bevande in polvere Kool-Aid, mentre la RJ Reynolds produceva, attraverso il conglomerato ora defunto RJR Nabisco, le Camel, la bevanda analcolica alla frutta Hawaiian Punch e le patatine Chips Ahoy.
Come è emerso nel 2019, grazie a un enorme lavoro di ricerca portato avanti dal gruppo di Laura Schmidt, dell’Università della California di San Francisco, in alcuni di questi prodotti sono stati utilizzati gli stessi coloranti e aromi impiegati nelle sigarette. Inoltre, è dall’industria del tabacco che arriva l’idea di ricorrere a colori vivaci sulle confezioni e di indirizzare la pubblicità alle fasce di popolazione più deboli, perché meno istruite e con disponibilità economiche limitate. Poi, a partire dai primi anni Duemila, le Big Tobacco hanno gradualmente abbandonato il settore del cibo, ma le eredità venefiche di quelle strategie sono ancora molto evidenti e hanno generato danni molto difficili da riparare, soprattutto perché ben radicati nelle abitudini alimentari dei Paesi più ricchi, a cominciare dagli Stati Uniti.
Tutto ciò emerge anche da uno studio condotto dai ricercatori dell’Università del Kansas, e pubblicato su Addiction, nel quale si dimostra come la stragrande maggioranza degli alimenti venduti dalle multinazionali del tabacco fosse costituita da alimenti iper-palatabili, o ‘super junk food’, cioè studiati per avere quantità stratosferiche di sale, zuccheri e grassi, allo scopo di essere irresistibili e abituare i consumatori a quel tipo di eccesso. Dal punto di vista evoluzionistico, il corpo umano non ha bisogno di quantità così elevate di zuccheri, sale e grassi e, di conseguenza, reagisce in modi imprevedibili. Inoltre, il piacere generato va a interagire (forse in modo amplificato, proprio per il generale squilibrio indotto) con i centri nervosi della ricompensa e delle dipendenze, spingendo la persona ad assumere quantità crescenti di quei prodotti.
In base ai documenti degli archivi delle aziende del tabacco e al confronto tra un centinaio dei loro prodotti e poco meno di 600 bevande e alimenti di altri marchi, gli autori hanno scoperto che, tra il 1988 e il 2001, i primi avevano l’80% in più di probabilità di essere classificati come iper-palatabili a elevato contenuto di sodio e carboidrati, e il 29% di probabilità in più di essere classificati iper-palatabili a elevato contenuto di sodio e grassi.
Ma ciò che colpisce è un altro dato: oggi, nel mercato statunitense, più del 57% dei prodotti è ancora catalogabile come iper-palatabile a elevato contenuto di sodio e grassi, e il 17% come iper-palatabile a elevato contenuto di sodio e carboidrati, a prescindere dalla presenza o meno di industrie del tabacco nel board dell’azienda. Il che significa solo una cosa: la strategia degli anni Novanta ha trionfato, conquistando stabilmente il mercato e insinuandosi nelle abitudini degli americani, che non riescono più a fare a meno di quel tipo di sapore e che, oltretutto, se vogliono scegliere alimenti come frutta e verdura, devono anche essere disposti a pagare mediamente di più, quando possono permetterselo.
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Giornalista scientifica
Interessante! Dove si sono trasferite poi le compagnie legate al tabacco?
Purtroppo anche in Italia le lobbies del food condizionano I consumatori: vedi la battaglia fra etichette nutriscore e nutrinform battery. Alla fine la salute dei consumatori è di interesse marginale
Questa è vera informazione, che in passato si definiva controinformazione.
Come, rimanendo in tema, i Quaderni di Controinformazione Alimentare della C.L.E.S.A.V. (se ricordo correttamente l’acronimo), una libreria universitaria milanese che editava questi preziosi quadernetti sugli argomenti più discussi. Ancora oggi peraltro, a riprova del fatto che alcune tematiche sono sempre attuali. Tra gli argomenti figuravano lo zucchero, la coca-cola (ma non le bibite dolcificate in genere) e il latte in polvere x neonati.
Magari è stato il contrario, nel tabacco hanno aggiunto gli stessi aromi e coloranti (alimentari) utilizzati per la preparazione di alimenti.