Lo stesso cibo se presentato caldo o freddo viene accolto in modo differente da chi si appresta a mangiarlo. La cosa dipende sia da un fattore fisiologico sia da un’intuizione errata secondo cui il cibo caldo è più calorico. Un recente studio pubblicato sul Journal of Consumer Research dal titolo Make It Hot? How Food Temperature (Mis) Guide Product Judgments, indaga su questo concetto e indica come motivo il fatto che una pietanza calda sia considerata più appetitosa e soddisfacente, una valutazione, quest’ultima, che intreccia abitudini alimentari e stimoli neurologici.
La cottura di alcuni cibi permette una loro maggiore digeribilità o la loro commestibilità – si pensi alle patate – con un conseguente miglior assorbimento di alcune sostanze. Questo ha fatto sì che il consumo di piatti caldi nei pasti principali diventasse una pratica comune e interculturale.

Allo stesso tempo è importante ricordare che se da una parte la cottura aumenta la concentrazione di glutammato (*) responsabile del sapore, dall’altra la temperatura elevata – si pensi ai liquidi caldi come il caffè – attiva la corteccia gustativa accrescendo la sensazione di piacevolezza. Queste reazioni fisiologiche possono riflettersi sul piano psicologico portando a credere che un cibo caldo sia più calorico rispetto allo stesso cibo freddo (per esempio, una fetta di pane riscaldata o meno). Tale percezione orienta alcuni comportamenti in fatto alimentare come una maggiore disponibilità a pagare un cibo caldo al posto della sua versione equivalente fredda, la propensione a servire dosi maggiori se il prodotto è caldo, la propensione a scegliere piatti freddi se si sta osservando un regime di restrizione calorica e la tendenza a sottostimare i valori nutrizionali delle pietanze fredde con conseguente maggiore consumo di extra quali dessert e bevande.

Sul piano psicologico siamo portati a credere che un cibo caldo sia più calorico rispetto allo stesso cibo freddo

Adottando il punto di vista di un consumatore, il nesso “cibo caldo-maggior apporto calorico” viene letto in termini di utilità. In questo modo la percezione della ricchezza del cibo dedotta dalla sua temperatura si riflette sul suo valore monetario. Davanti a una stessa proposta alimentare con l’unica variante della temperatura, lo studio ha dimostrato una predisposizione a pagare la variante calda il 25% in più rispetto alla gemella fredda. Sebbene sia risultato che le porzioni dello stesso cibo variano del 27% se servite calde o fredde dove l’opzione calda è quella più abbondante. Inoltre si è notata la tendenza a sottostimare il valore nutrizionale dei cibi freddi; ciò determina una maggiore disponibilità ad arricchire i piatti con conseguente aumento del 31% delle calorie, del 37% dei grassi e del 22% dei carboidrati introdotti. Quelli che potrebbero sembrare dei semplici dati privi di un riscontro sul piano pratico, possono invece essere emblematici sia per il controllo del peso sia per il marketing. Dove i consumatori e le consumatrici potrebbero scegliere pasti freddi non salutari solo perché percepiti come meno calorici.

Se da una parte tale ricerca presenta dei limiti geografici e culturali poiché indaga sull’associazione calore-calorie concentrandosi solo su alcune aree geografiche, ovvero Stati Uniti, Brasile e Francia, escludendo così Paesi con un clima caratterizzato da elevate temperature, dall’altra sembra non prendere in considerazione la sfera emotiva sollecitata dagli alimenti caldi. “Il senso di appagamento restituito dai pasti caldi – ricorda Stefania Ruggeri, nutrizionista e ricercatrice del Crea-Alimenti e Nutrizione – potrebbe rispondere a un bisogno legato all’ambito relazionale che può trovare le sue origini nell’esperienza dell’allattamento. Il latte materno non è, infatti, solo fonte di nutrimento per la bambina e il bambino, ma ha un significato più importante: la creazione di un rapporto affettivo instaurato attraverso il calore del contatto tra madre e figlia/o. Questo può in parte spiegare il valore più elevato che si attribuisce al cibo caldo. Non c’è dunque da sorprendersi se non ci si sente soddisfatti da un’insalatona che spesso è molto più calorica di quello che si possa immaginare, dato che si cerca di colmare l’inappagamento con numerose aggiunte. Quello che sembra light perché freddo può risultare molto più ricco di un piatto di pasta al pomodoro”.

temperatura
La temperatura elevata potrebbe fare del cibo un momento sociale

Al fine di integrare i risultati ottenuti dallo studio, oltre all’importanza della sfera emotiva come condizione che assegna al calore una qualità che va oltre la pura percezione sensoriale, è bene ricordare il peso che ha il modello di vita occidentale sul tempo che si è disposti a dedicare al momento dei pasti. Gli attuali ritmi frenetici stanno disabituando all’idea del pranzo condiviso che va via via perdendo la sua connotazione di rito sociale quotidiano. In questa cornice, il cibo freddo pare rispondere meglio alle caratteristiche imposte da una società che vede nella velocità – in questo caso velocità di consumo – un valore. Osserva le regole dell’economicità e funzionalità anche il nuovo modo di progettare le cucine. Il modello delle cosiddette “living kitchen”, che vogliono la sostituzione del tavolo tradizionale a favore di penisole e sgabelli, tende ad annullare la separazione tra lo spazio intimo dedicato al momento della preparazione e del godimento dei pasti e il resto della casa, confinando così la cucina a un ruolo strumentale. Il cibo freddo pare dunque corrispondere alle tendenze alimentari attuali: la predilezione indipendentemente dal proprio desiderio per tutto ciò che sembra light, la sempre minore disponibilità a dedicare tempo alla preparazione di un piatto, la necessità di velocizzare l’appuntamento con i pasti. In questa prospettiva la temperatura elevata potrebbe fare del cibo un momento sociale, mentre la temperatura fredda potrebbe ridurre gli alimenti a meri oggetti necessari al solo scopo del cibarsi: se quello che si cerca nell’alimentazione è la funzionalità privata del piacere appare più chiaro il motivo per cui si tende a pagare meno e a servire dosi minori di pietanze fredde.

(*) Il glutammato monosodico è il sale sodico dell’acido glutammico, un aminoacido naturale presente in moltissimi alimenti, in particolare in quelli ad alto contenuto proteico

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Giovanni Gozzi
Giovanni Gozzi
16 Dicembre 2020 22:36

Consiglio di leggere a tal proposito il capitolo dedicato da Ballarini nel suo libro La cucina consapevole.
Se ne deduce che le cose sono molto, ma molto più complesse della banalizzazione caldo calorico / freddo acalorico. Solo degli spunti: ragioni storiche (scoperta del fuoco per cuocere), ragioni climatiche (paesi freddi con maggior propensione alla cottura o negli ultimi tempi esattamente in controcorrente.
Secondo me bisognerebbe sempre pensare a quelle che sono la applicazioni funzionali (benissimo cibi freddi per certi nutrienti, in certi climi, per certe esigenze) ma altrettanto bene pietanze cotte quando serve.
Moderate, moderate.

Maria
Maria
Reply to  Giovanni Gozzi
9 Gennaio 2021 12:57

Concordo completamente con Mauro, il primo cibo freddo di cui ho ricordi è la “insalata di pasta” introdotta come una stranezza (“n’americanà”, un’americanata) in un’estate degli anni ’50 a pranzo coi nonni a casa di amici “tirinèis” (torinesi, e quindi “strani” per definizione), noi di campagna mangiavamo solo e sempre cibi caldi, portati in tavola belli bollenti, di freddo c’era giusto l’insalata dei pomodori dell’orto ma era contorno delle cotolette, persino il pastone delle galline glielo portavamo appena non era più bollente di stufa, mangiare freddo non era proprio considerato.

Mauro
Mauro
30 Dicembre 2020 10:21

I cibi freddi nella cucina tradizionale occupano spazi ben definiti e limitati a specifiche preparazioni, mentre la parte del leone, almeno in termini quantitativi o nella normale alimentazione, l’hanno sempre fatta le preparazioni calde come minestroni, polente, risotti, stufati, spezzatini…

I cibi freddi erano spesso visti come sostituti d’emergenza nell’impossibilità di consumare cibi caldi, nelle nostre campagne il contadino faceva la colazione (o merenda) “del fazzoletto” portando con sè in un involto pane, formaggio, cipolle, soltanto se il campo era molto lontano da casa e i ragazzi non facevano in tempo a portargli la minestra calda.

In casa il cibo freddo consisteva negli avanzi del pasto precedente, che però appena possibile venivano scaldati come ad esempio la polenta arrostita a fette direttamente sulla stufa, e venivano consumati tali e quali, perché non si buttava nulla, magari a complemento di un pasto troppo frugale.

Non ricordo di aver mai sentito nessuno affermare di preferire i cibi freddi perché “meno calorici”, mentre al contrario in tavola i cibi erano sempre richiesti molto caldi, e spesso in piatti riscaldati, oltre che perché soddisfacevano maggiormente il gusto anche perché “facilitavano la digestione”.

Solo in tempi recenti, tra la fretta e la mania delle diete di fantasia proposte da personaggi di dubbia preparazione, ci si è ridotti al tramezzino in piedi o all’insalatona (niente affatto dietetica!) come sostituto del pasto, tendenza che per fortuna va regredendo con la disponibilità di piatti caldi anche al banco del bar.