Un’Europa divisa in due, con un nord sempre più succube di prodotti che non fanno bene alla salute, e un sud che resiste, con punte di eccellenza come l’Italia ed eccezioni come la Spagna, Malta e Cipro, che tendono ad avvicinarsi ai paesi del Nord Europa (con tassi di obesità preoccupanti). È un continente a due velocità quello che emerge dall’analisi coordinata dai nutrizionisti dell’Università di San Paolo, in Brasile, in collaborazione con diversi atenei europei su 19 nazioni dell’Europa. Il lavoro è uscito su un numero speciale della rivista Public Health Nutrition dedicato al tema, con molti altre ricerche provenienti da numerosi Paesi (ma non dall’Italia, purtroppo).
Nello studio, che in una certa misura li riassume tutti, gli autori hanno esaminato gli andamenti dei consumi di alimenti, suddivisi in 4 gruppi in base a una classificazione da loro proposta circa un anno fa e chiamata NOVA (che divide gli alimenti in base al grado di raffinazione/lavorazione industriale) . Il risultato è in linea con quanto segnalato già in altre ricerche analoghe e cioè: più la dieta si basa sui cibi ultra-processati, maggiore è l’incidenza dell’obesità.
Ciò che è interessante è la diversa composizione delle dieta nei diversi paesi. Anche se i modelli sono poco o per nulla paragonabile (i dati sono tratti da archivi nazionali che presentano talvolta grandi differenze), si evidenzia lo stesso una tendenza che consente di fare delle considerazioni generali.
Il cibo non lavorato a livello industriale o processato in minima parte nella cucina di casa, per gli europei rappresenta il 33,9% delle calorie totali. Quello lavorato poco, cioè ottenuto con qualche ingrediente industriale ma preparato sempre in casa arriva al 20,3%, mentre quello industriale ancora fedele all’originale il 19,6%. In ultima posizione troviamo gli alimenti ultra-processati, composti quasi unicamente da ingredienti di origine industriale come estratti, paste vegetali o animali aromatizzate e così via coprono il 26,4%.
Quest’ultima percentuale varia moltissimo. Se in Portogallo siamo a circa il il 10,2% e in Italia al 13,4%, in Germania la percentuale schizza al 46,2% e in Gran Bretagna arriva al il 50,4%. Gli inglesi infatti consumano metà delle calorie quotidiane ricorrendo ad alimenti che poco o nulla hanno a che vedere con quelli ricavati direttamente da orti, campi, frutteti e allevamenti. I valore negli altri Paesi si collocano all’interno delle fasce più estreme. L’Irlanda è al 45,9%, la Polonia al 36,9%, l’Austria al 35%, mentre la Francia è al 14,2%, la Grecia al 13,7%, la Croazia al 17,9%, la Spagna al 20,3%. I Paesi dell’Europa dell’Est sono in una posizione intermedia: la Slovacchia è al 20,2%, la Lituania al 26,4% e la Lettonia al 32,9%, con tendenza al peggioramento via via che si va verso nord.
L’indagine, ripresa anche dal Guardian, ha allarmato soprattutto i nutrizionisti britannici, da anni impegnati in una lotta senza quartiere (ma con scarsi risultati) all’obesità. Gli inglesi hanno posto l’accento su due aspetti. Il primo è che tutti gli additivi utilizzati nei cibi ultra-processati come coloranti, conservanti e sostanze aggiunte per aumentare la palatabilità o la shelf life, non sono stati studiati nella prospettiva di un accumulo quotidiano. Nessuno ha mai investigato su cosa accada in un organismo che ne assume in quantità, di tipo diverso, per anni.
Il secondo aspetto rilevato dai commentatori interpellati dal giornale inglese è il legame con l’obesità. Questi alimenti sono poveri non solo di vitamine, fibre e altri micronutrienti essenziali, ma anche di nutrienti come le fibre e di fitoestrogeni, che esercitano diverse funzioni protettive. Al contrario, apportano grandi quantità di zuccheri, sali e grassi, oltre agli additivi. Del resto, basta citare alcuni esempio di cibi superprocessati e molto popolari in Gran Bretagna come i noodles fatti solo di amidi aromatizzati, i formaggi ricavati da polveri di latte, o crocchette di pollo che un pollo intero non l’hanno mai visto.
Il giornalista e scrittore Michael Pollan, autore di best seller mondiali sul cibo, per riassumere la sua idea di alimento sano, ha più volte detto e scritto: “Non mangiare nulla che tua nonna non riconoscerebbe come cibo”. Di certo il cibo ultraprocessato è un’eredità del dopoguerra, e le nonne come la sua, nate prima, non l’avrebbero riconosciuto.
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Giornalista scientifica
Direi scritto e acclarato che i cibi ultraprocessati non sono riconosciuti dai nostri enzimi. I nostri geni antichi, per dirla in parole povere, non sanno cosa viene introdotto nel nostro organismo e trasformano in grasso quello che non conoscono. Semplificazione didattica ma supportata da ampi studi, in primis, da medici dei programmi spaziali.