Lo sforzo di chi cerca di perdere peso con una dieta può essere vanificato da una tipologia di alimenti non sempre percepiti come una minaccia: i cibi cosiddetti iper-palatabili, così definiti nel 2019 dai ricercatori dell’Università del Texas su Obesity, che stanno catturando un’attenzione crescente. Si tratta di prodotti che hanno specifiche concentrazioni di sale, carboidrati, zuccheri semplici e grassi, tali da renderli appunto molto appetibili, e densamente calorici. Alla categoria appartiene la stragrande maggioranza degli ultraprocessati, e questo spiega perché, sempre secondo lo studio del 2019, più del 60% degli alimenti presenti sul mercato statunitense sarebbe definibile anche come iper-palatabile (un esempio classico sono le patatine fritte). Ora però lo stesso gruppo di nutrizionisti fa un passo in avanti, definendo il ruolo dell’assunzione di questi alimenti quando si cerca di perdere peso attraverso uno tra quattro possibili approcci dietetici: a basso tenore di carboidrati, a basso tenore di grassi, senza ultraprocessati oppure con ultraprocessati.
Come illustrato su Nature Food, analizzando oltre 2.700 pasti di persone che stavano seguendo una dieta dimagrante, gli autori hanno dimostrato che, a prescindere dal tipo di approccio, l’assunzione di alimenti iper-palatabili è sempre associata a un aumento delle calorie totali, anche se spesso la persona non se ne rende conto. Si tratta, inoltre, di un effetto specifico, come confermato dal fatto che la quantità di proteine assunta influenza le calorie totali in chi segue una dieta che esclude o include gli ultraprocessati, ma non negli altri due tipi di dieta.
Il ruolo degli iper-palatabili, su cui punta da anni l’industria alimentare, potrebbe avere anche un altro tipo di conseguenza, associata indirettamente all’assunzione di troppe calorie: potrebbe favorire l’instaurazione di una dipendenza da cibo, proprio per la gradevolezza dei prodotti, caratteristica che, attraverso i circuiti cerebrali che coinvolgono la dopamina, induce a cercarli. E il risultato è disastroso, almeno in un paese come gli Stati Uniti, dove gli alimenti industriali occupano un posto di assoluto rilievo nell’alimentazione quotidiana. Come emerso in un altro studio, pubblicato negli stessi giorni dai ricercatori dell’Università del Michigan, e condotto su oltre 2.100 persone di età compresa tra i 50 e gli 80 anni, tra gli over 50 una persona su otto (il 13%) ha tutti i sintomi della dipendenza da cibo ultraprocessato, tra i quali un desiderio molto intenso (presente nel 24% degli intervistati), l’incapacità di rinunciare nonostante la voglia di farlo (rilevata nel 19% dei partecipanti), e i sintomi di un’autentica astinenza (emersi nel 17% del campione), e il 44% ne ha almeno uno o più. Tutto ciò causa tutte le manifestazioni dello stress almeno 2-3 volte alla settimana, in una persona su dodici, e si manifesta più spesso nelle donne che negli uomini, specie in situazioni di disagio e solitudine. Queste ultime, non a caso, sono flagellate dall’obesità.
Gli alimenti ultraprocessati, di cui fanno parte quasi tutti gli iper-palatabili, creano quindi abitudini da cui è difficilissimo allontanarsi, e che si instaurano anche senza che la vittima se ne renda conto, almeno inizialmente. E sono sempre alimenti di pessima qualità nutrizionale.
© Riproduzione riservata Foto: AdobeStock
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/add.16065
Gli alimenti altamente trasformati possono essere considerati sostanze che creano dipendenza sulla base di criteri scientifici stabiliti
Ashley N. Gearhardt, Alexandra G. Di Feliceantonio
Pubblicato per la prima volta:09 novembre 2022 https://doi.org/10.1111/add.16065
———————Gli HPF industriali sono anche ottimizzati attraverso additivi che abbinano proprietà somatosensoriali specifiche (ad esempio gusto, olfatto, consistenza e sensazione in bocca) con la consegna di alte dosi di carboidrati raffinati e grassi aggiunti. È improbabile che questi additivi si rafforzino da soli, ma se combinati con carboidrati raffinati e grassi aggiunti probabilmente svolgono un ruolo chiave nell’amplificare la natura che crea dipendenza degli HPF industriali. Preoccupante, molti additivi industriali (es. esaltatori di sapidità come nucleotidi e aromi artificiali, texturizzanti come emulsionanti) non sono tipicamente utilizzati nella cucina casalinga. Molte proprietà somatosensoriali che diventano potenti fattori di assunzione (ad es. aroma di formaggio artificiale, masticabilità di caramelle gommose) sono tipicamente disponibili solo negli HPF industriali. ——————–
Una sensibile girata di pagina rispetto a coloro che hanno sempre negato l’associazione tra carboidrati raffinati e dipendenza.
Quello che è improbabile poi si vedrà quando sarà completata la lista di adiuvanti di un certo prodotto e sarà studiata per bene nel suo insieme.
L’aspetto più inquietante, ora che il vaso di Pandora è aperto, riusciranno gli assemblatori di cibi a rinunciare a questa arma concorrenziale? Sapranno i consumatori resistere e avranno il desiderio di rieducare il proprio palato?
Vedremo in pratica quanti novel-food sapranno superare la prova nei fatti, e in alto la bandiera del dottor Monteiro.
Interessante, ricordo di aver letto da qualche prte, molto tempo fa, che un bimbo abituato con i succhi di frutta industriali difficilmente beve una spremuta di arance.
Eppoi: “Sapranno i consumatori resistere e avranno il desiderio di rieducare il proprio palato?”
Motivazione a parte, la rieducazione del palato non è una passeggiata; specialmente per coloro che, per motivi di lavoro o di studio, sono costretti a colazioni o pranzi, e certe volte cene fuori casa.