La storia della predilezione per le bollicine dei consumatori russi è tanto antica quanto quella della determinazione dei francesi a vendere loro lo Champagne. E se la Maison Veuve Cliquot Ponsardin agli inizi del 1800 individuò nuove rotte attraverso il Mar Baltico per superare il blocco continentale imposto da Napoleone e portare il suo vino alla corte dello Zar, possiamo immaginare che anche nella storia di rivendicazioni di nomi ed etichette che si sta consumando in questi giorni, difficilmente uno dei due contendenti cederà facilmente il prestigio di un nome ambito come quello dello Champagne.
La questione nasce il 2 luglio scorso, con la firma da parte di Vladimir Putin di una legge che impone a tutti i produttori di vini spumanti importati in Russia, di indicare la dicitura in caratteri cirillici di “vino spumante” e non di Champagne (cosa che attualmente fanno ovviamente i produttori di Champagne francese). Il nome di Shampanskoye, resterebbe esclusivo invece per lo spumante nazionale, unico prodotto a potersi fregiare quindi di questo nome scritto nella lingua e con l’alfabeto russo. La notizia diffusa nei giorni scorsi tuttavia è forse un po’ da ridimensionare in quanto la nuova norma, va precisato, non impedisce di utilizzare sull’etichetta principale quella che è la denominazione di origine Champagne nella lingua originale, il francese, e in caratteri latini, per cui l’etichetta principale potrà restare esattamente la stessa con tutti i suoi segni distintivi, e sarà solo nella retro-etichetta in lingua russa e caratteri cirillici che il vino francese non si tradurrà più Shampanskoye ma dovrà riportare Vino Spumante.
La reazione dei francesi non è tardata, e risulta piuttosto indignata: Champagne è la nostra regione ed è una denominazione di origine protetta per cui nessuno può impedirci di utilizzarla. “Privare i produttori dello Champagne del loro diritto a utilizzare il nome Champagne in cirrilico è scandaloso in quanto fa parte del nostro patrimonio comune ed è il nostro fiore all’occhiello” hanno dichiarato nel comunicato stampa Maxime Toubart e Jean-Marie Barillère, i due codirettori del Comitato Interprofessionale dei Vini di Champagne. Il gruppo del lusso LVMH Luois Vuitton Moet Hennessy, che controlla alcune delle Maison di Champagne più prestigiose, ha ipotizzato in un primo momento di voler sospendere le esportazioni in Russia per poter valutare meglio le conseguenze e la situazione, per poi a quanto pare dimostrarsi disponibile a modificare le diciture in retroetichetta.
Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di rispondere a due domande: la prima è perché in Russia si produca un vino che si chiama Shampanskoye – così simile a Champagne – e la seconda è quale sia l’intento della nuova legge del Governo di Putin e quali le conseguenze sul mercato internazionale. La storia dello Champagne russo risale al decennio compreso tra il 1920 e il 1930 ed è l’antitesi di quella dello Champagne francese venduto agli Zar. L’obiettivo della Russia di Stalin in quel decennio è quello di sviluppare un nuovo metodo per produrre un vino frizzante o spumante per i lavoratori, in modo economico e rapido. Lo Champagne sovietico, il Soviet Shampanskoye, nasce così negli anni 30 con il metodo messo a punto da Anton Frolov Bragleyev ed è un prodotto di bassa qualità ottenuto non con il metodo classico di rifermentazione in bottiglia come il riferimento francese, ma in grandi contenitori in pressione e in continuo.
La produzione di Shampanskoye continua anche in epoca post sovietica anche se la Federazione Russa perde una delle regioni più importanti per la produzione di vino e di bollicine che è la Crimea, riannessa però nel 2014 con la guerra Russo Ucraina. E conquistate nuove terre al sole adatte alla produzione vitivinicola, la Russia di Putin, che è il settimo paese per i consumi mondiali di vino principalmente legati in valore e in volume all’importazione, comincia ad attivare una politica di sostegno alle produzioni interne, con un’espansione delle superfici di circa 4-6000 ha ogni anno per una superficie totale che nel 2020 avrebbe raggiunto i 140.000 ha e che si stima possa divenire di 180.000 ha nel 2025.
E naturalmente la legge sull’etichettatura degli spumanti e la restrizione della denominazione russa di Shampanskoye ai soli prodotti russi è legata a questa politica e di lungo periodo. Ma lo possono fare visto che Champagne è una denominazione di origine registrata? Evidentemente si, in quanto la Russia non solo non è un paese dell’Unione Europea ma non fa parte dei paesi firmatari dell’Atto di Ginevra all’Accordo di Lisbona del 2019 sulla protezione in ambito internazionale delle denominazioni di origine estesa poi alle indicazioni geografiche. E quindi se i russi desisteranno dall’impedire ai francesi di usare la parola Shampanskoye sullo Champagne sarà per il risultato dell’azione diplomatica che si svolgerà nell’ambito di una contrattazione bilaterale tra la Russia da un lato e la Francia con la Comunità Europea dall’altro, nella quale ognuno dei due probabilmente cederà qualcosa. Resta il fatto però che quello dello Champagne francese è il mercato del lusso e difficilmente si andrebbe a sovrapporre a quello del prodotto russo, che si colloca invece a prezzi di 3-8 Euro a bottiglia. Una fascia molto più vicina a bollicine come quelle del Prosecco o dell’Asti spumante che sul mercato russo stanno crescendo di percentuali a due cifre ogni anno (+37% nell’ultimo anno).
Pensare che, alla luce della politica protezionistica del governo Putin, dall’interruzione delle esportazioni dello Champagne possa avvantaggiarsene proprio il Prosecco, come si è letto in questi giorni in alcuni comunicati, quindi sembra piuttosto ingenuo e anzi impone di tenere gli occhi bene aperti per possibili future mosse che ci possano interessare più da vicino. Anche perché nello stesso momento, in questo Risiko delle denominazioni, il Prosecco sta giocando un’altra battaglia, questa volta tutta europea con la Croazia, che ha chiesto alla Comunità Europea il riconoscimento della menzione tradizionale per un vino dolce che si chiama per l’appunto Prosek. Le Denominazioni di Origine e le Indicazioni Geografiche protette DOP e IGP sono tutelate a livello Europeo: la loro registrazione viene richiesta, sulla base di un disciplinare da un gruppo di produttori in forma associata, allo Stato membro che ne fa una prima valutazione e la inoltra poi alla Commissione Europea per la decisione. Nel disciplinare sono definiti i confini geografici di un di una regione di un prodotto tipico oltre che le tecniche di produzione, coltivazione e trasformazione, perché il punto fondamentale è che le DOP e le IGP debbano essere legate a un territorio di origine e al suo nome.
Memori della sconfitta sulla definizione del Tocai friulano, denominazione basata non su un luogo geografico ma sul vitigno, che nel 2007 aveva dovuto rinunciare al suo nome a favore di un più generico Friulano per la rivendicazione avanzata dal vino omonimo ungherese prodotto nella regione del Tokaij, i produttori del Prosecco DOC nel 2009 hanno esteso la loro zona di produzione fino a includere Prosecco, piccola frazione in provincia di Trieste e mettere così al sicuro il loro nome in sede europea. A tentare la volata e avvantaggiarsi del successo delle bollicine venete questa volta è la Croazia dove un vino (dolce e del tutto diverso dal Prosecco italiano con Denominazione di Origine) si chiama per l’appunto Prosek ma il cui nome non è stato mai rivendicato come denominazione dal 2013, anno dell’ingresso dello stato nella Comunità Europea.
La risposta dell’Italia è molto netta e probabilmente abbastanza sicura in quanto, come ha dichiarato il Segretario Generale di Unione Italiana Vini Paolo Castelletti a conferma anche di quanto sostenuto dal Ministero dell’Agricoltura, “la normativa europea è chiara: non possono essere riconosciuti nomi di menzioni tradizionali – come il ‘Prosek’ – omonimi di nomi di Dop/Igp europee che potrebbero indurre in errore il consumatore circa la natura, la qualità o la vera origine del prodotto”. Aprire al Prosek croato potrebbe creare ambiguità o incertezza anche su altri fronti ancora meno tutelati e potrebbe andare a indebolire la posizione italiana nei negoziati bilaterali con paesi produttori extra UE ben più importanti, dove non sono attualmente riconosciute le denominazioni europee e dove imperversano Prosecchi australiani o argentini. Intanto sul piano formale il Ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli ha inoltrato l’8 luglio alla Commissione europea un’opposizione alla domanda di registrazione di menzione tradizionale del vino croato. Rispetto alla diatriba con l’Ungheria sembra quindi che, forti della presenza della menzione geografica, non ci possano essere dubbi anche se, aprendo Google maps, notiamo che c’è un Prosek in Serbia, uno in Macedonia del Nord e uno nella repubblica Ceca, per cui non resta che incrociare le dita e sorseggiare un calice di Prosecco, italiano naturalmente.
Alessandra Biondi Bartolini, agronoma e giornalista scientifica
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