Il cibo per gli animali d’affezione, oltre a costituire tra il 25 e il 30% del consumo di carne, minaccia anche alcune specie marine a rischio estinzione. Tra queste ci sono anche gli squali. A causa delle norme permissive sull’etichettatura, infatti, la presenza di carne di pesci che non dovrebbero essere presenti viene celata dietro diciture imprecise come “pesce”, “pesce oceanico”, “bianchetti” o “pesce bianco”. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato nel 2019 su Conservation Genetics. Il ricercatore che ha realizzato lo studio ha preso in considerazione 87 campioni di alimenti per animali venduti negli Stati Uniti, riuscendo ad analizzarne il Dna nel 63% dei casi. In sette scatolette su dieci era presente carne di squalo mako a pinna corta (Isurus oxyrinchus), una specie a rischio di estinzione.
Un analogo riscontro deriva da un’indagine più recente, pubblicata su Frontiers in Marine Science. Quest’ultimo lavoro, svolto da ricercatori dell’Università di Singapore e della sede di Singapore dell’università di Yale, è stato fatto con 144 campioni di alimenti per animali venduti nella città-stato asiatica. Sono stati acquistati e sottoposti ad accurata analisi genetica le scatolette provenienti da 45 prodotti per animali di 16 differenti brand. Il risultato è stato che il 31% dei campioni sequenziati conteneva Dna di squalo. Il più diffuso è risultato quello di verdesca (Prionace glauca), specie non ancora in via di estinzione, ma comunque sovrasfruttata, la seconda specie trovata è lo squalo seta (Carcharhinus falciformis), elencato nella Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites) e al terzo posto si trova lo squalo pinna bianca del reef (Triaenodon obesus).
Anche in questo caso si tratta di un risultato preoccupante, visto che negli ultimi 50 anni la popolazione degli squali ha subìto una diminuzione del 70% e che tre quarti delle specie oceaniche di squalo sono attualmente considerate a rischio di estinzione. Tra le destinazioni principali di questa pesca illegale c’è quindi il mercato del pet food, ma non solo: un ruolo in questa carneficina lo ha avuto anche l’industria cosmetica, che impiega tra i suoi ingredienti lo squalene, una sostanza organica particolarmente abbondante nell’olio di fegato di squalo, oggi ampiamente sostituito da squalene derivato da oli vegetali. Lo studio del 2019 aveva infatti anche indagato 24 campioni di cosmetici, solo in tre casi, il 12,5%, è stato possibile sequenziare il Dna e in tutti è stato trovato materiale genetico proveniente da squali.
Per combattere realmente questo commercio illegale e l’eccesso di pesca che ne è la conseguenza c’è un solo modo, secondo gli autori: introdurre regole internazionali per l’etichettatura che obblighino a specificare il tipo di carne e la sua provenienza, con punizioni severe per chi le vìola. Questo permetterebbe ai consumatori (in questo caso proprietari degli animali) di scegliere consapevolmente e costringerebbe i produttori a elevare gli standard qualitativi dei loro alimenti, impedendo che si utilizzino carni vietate.
© Riproduzione riservata
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica