Mentre aumentano, anche in Italia, le pubblicità e i claim che vantano la compensazione delle emissioni di CO2, l’associazione dei consumatori europei Beuc, che riunisce 46 organizzazioni nazionali di 32 Paesi (tra le quali tre italiane), chiede ufficialmente di vietare le diciture applicate al cibo quali ‘carbon neutral’, ‘CO2 neutral’, ‘carbon positive’, ‘carbon neutral certified’, che sarebbero solo l’ennesima forma di greenwashing. Qualunque messaggio di questo tipo sarebbe infatti ingannevole e inaccurato dal punto di vista scientifico, perché nessun alimento viene prodotto senza che vi siano emissioni di anidride carbonica. Ci sarebbe poi un altro limite evidente. Il sistema dei crediti di carbonio, secondo il quale parte degli introiti derivanti da un prodotto associato a emissioni di CO2 è reinvestita in pratiche che permettono una riduzione dei gas serra legati ad altre attività, chiamato offsetting o compensazione, di per sé è molto discusso e dice qualcosa soltanto del presente, ma nulla del futuro. In altre parole, non certifica affatto l’impegno di un’azienda a migliorare i propri metodi produttivi, come invece si vorrebbe far credere. Inoltre, qualora le diciture non corrispondano alla realtà, le norme dei vari Paesi e i sistemi di controllo sono in genere talmente lenti e farraginosi da risultare inefficaci, e sarebbe quindi molto meglio che queste affermazioni non ci fossero.
Spiega la direttrice del Beuc, Monique Goyens: “È una cortina fumogena che dà l’impressione che le aziende stiano intraprendendo azioni serie e immediate sul proprio impatto sul clima. La verità è che invece stanno ritardando gli interventi di molti anni ‘compensando’ le loro emissioni di carbonio. Piantare alberi che richiederanno decenni per crescere è molto più facile ed economico, ma significativamente meno efficace, che tagliare le emissioni dalle loro attività correnti dannose per il clima”. I progetti di compensazione basati su pratiche di forestazione, inoltre, potrebbero essere spazzati via da un incendio, dalla siccità, da un parassita, dall’abbandono o dal decesso di chi li deve curare. E ancora: “I messaggi di ‘marketing verde’ come ‘carbon neutral’, ‘CO2 neutral’ o ‘carbon positive’ stanno facendo più male che bene. Per la carne o i prodotti lattiero-caseari, che sono dannosi per il clima, queste affermazioni dalle connotazioni positive sono destinate a incoraggiare il mantenimento di uno status quo nelle abitudini di consumo. Ciò è assolutamente controproducente in un momento di emergenza climatica, quando i consumatori hanno fame di informazioni affidabili e significative, che li aiutino ad adottare diete più rispettose dell’ambiente. L’UE deve cogliere le opportunità legislative delle prossime settimane per eliminare dal mercato queste affermazioni”. Per questo il Beuc chiede la Commissione europea rimuova dalla Direttiva sulle pratiche commerciali scorrette (Ucpd) tutti i claim sulla neutralità di carbonio.
FoodNavigator, nel riferire dell’iniziativa del Beuc, ha comunque interpellato anche The Carbon Trust, un’organizzazione senza scopo di lucro nata con l’obiettivo di aiutare le aziende a ridurre le proprie emissioni di CO2, che si è detta d’accordo sulla necessità di eliminare le diciture ‘carbon positive’ e ‘climate negative’. John Newton, direttore del Label programme delivery del Carbon Trust, ha ricordato che le linee guida sconsigliano esplicitamente tali diciture, anche perché non esiste una definizione unica di questi termini e possono essere quindi fuorvianti. Tuttavia rivendica l’utilità del claim ‘carbon neutral’, anche se per fornire un’informazione corretta – ha aggiunto – ci dovrebbero essere dati sul contesto della specifica produzione, sul reale significato della neutralità per quel prodotto, eventualmente anche con link di approfondimento che descrivano cosa l’azienda sta facendo e intende fare in futuro per migliorare la propria impronta, dando modo al cliente di seguire i progressi passo dopo passo. Del resto, questo è ciò che dovrebbero fare le aziende per avere la certificazione PAS 2060, l’unica certificazione di neutralità carbonica riconosciuta a livello internazionale, che prevede la definizione dell’impronta ambientale di partenza di una certa produzione e l’implementazione di un piano di riduzione e compensazione delle emissioni, verificate annualmente.
In Italia il fenomeno è molto meno diffuso rispetto a ciò che accade in altri Paesi, soprattutto per quanto riguarda il cibo: per esempio, non sono presenti diciture di questo tipo su frutta e verdura. Tuttavia è in crescita, e se l’Europa varasse una norma dedicata, anche il mercato italiano dovrebbe adeguarsi.
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Giornalista scientifica
Nell’articolo si dice che in Italia il fenomeno è meno diffuso, ma nelle pubblicità è tutto un dilagare della parola “sostenibile”, che sembra applicata a casaccio (ovvero greenwashing).
Tanto per fare un esempio, una famosa marca di surgelati vantava la coltivazione dei propri piselli come “sostenibile”, con tanto di allegra canzoncina: ma in che senso???
O una coltivazione è biologica, e quindi deve sottostare a determinati parametri stabiliti per legge, con apposito processo di certificazione, o altrimenti sono solo parole…
La coltivazione può anche essere biodinamica (e anche qui mi pare che ci voglia apposita certificazione).
Oppure applicare la lotta integrata.
Il resto mi sa tanto di aria fritta…
purtroppo nessuna attività umana è di fatto sostenibile; qualsiasi cosa facciamo come esseri umani e paradossalmente anche che non facciamo (anche quando stiamo fermi) ha un costo ambientale; quindi il green e il biologico assoluto non possono esistere allo stato di fatto dell’uomo, questo è il primo punto da tenere sempre ben presente. Quando dicono “sostenibile” di fatto è sempre agricoltura di lotta integrata (quindi con l’utilizzo di antibiotici, fitofarmaci e quant’altro che certamente non è sostenibile come anzidetto, anche considerando che oltre ad inquinare e rendere sterile la terra, inquiniamo i corsi d’acqua e ci inquiniamo noi stessi con quel che mangiamo o beviamo finendo all’ospedale poi o diventando – il processo è inarrestabile – in particolare per gli uomini, sterili), quindi secondo loro diciamo che tendono a voler far passare un messaggio che in parole povere sarebbe questo: “anche se con la lotta integrata” (che te la dicono così e non con altri termini più diretti e corretti tipo: “lo spruzzo di chimica”), alla fine riusciamo a compensare il altro modo quello che facciamo all’ambiente ed al “cibo” che ti vendiamo (non si sa bene in che modo ci vogliano far credere di compensare perchè non è mai spiegato nero su bianco), e quindi dovresti acquistarci perchè ci stimo impegnando per rispettare l’ambiente…”… ovviamente una montagna di bugie.
Problema molto attuale, che s’inquadra bene nel fenomeno del “greenwashing”, iniziato decenni fa con l’apposizione di termini quali “naturale” ed “ecologico”.
1)”nessun alimento viene prodotto senza che vi siano emissioni di anidride carbonica”: infatti, forse neppure l’insalata.
2)”certificazione PAS 2060″: grazie per questa informazione.
3)”e se l’Europa varasse una norma dedicata, anche il mercato italiano dovrebbe adeguarsi”: potrebbe essere il momento per una norma che limita espressioni superflue, o peggio come in questo caso, sulle etichette e nella pubblicità.