Il gruppo anglo-belga Anheuser-Busch Inbev, primo produttore mondiale di birra (Budweiser, Corona, Quilmes, Stella Artois, Beck’s e Lowenbrau), ha acquistato la holding sudafricana SabMiller, cui fanno capo i marchi Foster, Peroni, Nastro Azzurro e Pilsner Urquell. L’operazione, costata novanta miliardi di euro, rappresenta la terza maggiore acquisizione di sempre che porterà il neonato colosso a produrre un terzo della birra disponibile sul mercato globale. «La transazione rafforzerà la posizione di InBev su alcuni mercati emergenti chiave, con forti prospettive di crescita in Asia, America del Sud e Africa», ha dichiarato all’Ansa l’amministratore delegato di InBev, Carlos Brito. Lo scenario preoccupa la comunità scientifica, vista la crescente epidemia di danni correlati all’abuso di alcol.

La fusione dei due produttori di birra più grandi del mondo rappresenta «una grave minaccia per la salute globale, a cui ricercatori e le autorità di regolamentazione devono rispondere in modo più efficace», scrive Jeff Collin, direttore dell’unità di politica sanitaria globale dell’Università di Edimburgo, in un editoriale pubblicato sul British Medical Journal. Il nuovo colosso, secondo lo scienziato, punta ad aumentare gli utili seducendo i consumatori dei Paesi a basso e medio reddito. Nel mirino ci sarebbero sopratutto le nazioni africane. Le industrie del settore guardano con estremo interesse a un continente in espansione demografica e indirizzato verso una maggiore urbanizzazione. Le scelte adottate negli ultimi tre anni dalla sudafricana SabMiller lo dimostrano, con il raddoppio degli investimenti nel solo continente africano.

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L’uso di ingredienti locali permette di avere una tassazione più bassa

La birra in Africa

E il corteggiamento rivolto da alcuni marchi di prima fascia alle birre prodotte in Africa – da Ruut Extra (prodotta in Ghana da Diageo) a Bralima (gruppo Heineken, Congo) – viene letto come un primo passo nella spartizione della quota di quel territorio. Secondo l’ultimo rapporto della Canadean, multinazionale leader nelle ricerche di mercato, dal 2013 i consumi di birra in Africa stanno registrando una crescita del cinque per cento annuo: con Sud Africa, Nigeria e Angola a trainare l’intero continente. E l’utilizzo di ingredienti locali per la produzione di birra – come la tapioca, il miglio e il sorgo – permette alle grandi compagnie di avere una tassazione più bassa, oltre ad accrescere la responsabilità sociale di impresa.

Tutti i principali produttori di bevande alcoliche guardano con interesse all’Africa con l’obiettivo di aumentare il consumo pro-capite. Un trend che, secondo Collin, rispecchia quanto già fatto al di là del Mediterraneo da Big Tobacco, con cui l’industria dell’alcol ha diversi punti di contatto. Non è un caso che il 27% delle quote di SabMiller appartenga ad Altria Group: titolare dei marchi di sigarette Chesterfield, Diana, Marlboro, Merit, Multifilter e Philip Morris.

Tracciato lo scenario, Collin teme che «alle compagnie produttrici di bevande alcoliche non sia riconosciuto il giusto peso», cosa che invece l’Organizzazione Mondiale della Sanità fa rispetto al fumo. «Nel terzo punto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile redatti dall’Onu si parla della necessità di ridurre la mortalità provocata dalle malattie non trasmissibili, rafforzando la prevenzione e il trattamento per contenere i consumi di alcol», ricorda lo scienziato. Un impegno da sottoscrivere in primis nei Paesi in via di sviluppo, affinché possano gestire i rischi per le rispettive popolazioni.

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Gli effetti dannosi crescono proporzionalmente alla quantità e alla frequenza dei consumi

I danni delle bevande alcoliche

Nel tempo i danni indotti dal consumo di bevande alcoliche sono stati messi nero su bianco. L’etanolo e il suo metabolita acetaldeide sono inseriti nel gruppo 1 delle sostanze cancerogene redatto dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc), con effetti documentati a carico della cavità orale, dell’esofago, del fegato, del seno, del pancreas e del colon-retto.

«Nessun limite di consumo è privo di rischi e nei messaggi rivolti alla popolazione non si può far riferimento alle proprietà salutistiche delle bevande alcoliche, come ribadito anche dalla Corte di Giustizia Europea e puntualizzato in questi giorni nella sede del Parlamento Europeo dalle società scientifiche promotrici di #AWARH15, la terza settimana europea di incremento della consapevolezza sui danni causati dal consumo di alcol», dichiara Emanuele Scafato*, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’ISS. «I giovani non dovrebbero mai bere prima dei 18 anni, per l’incapacità fisiologica di metabolizzare l’alcol. Ma qualunque sua quantità interferisce nello sviluppo e rimodellamento del cervello tra i 12 e i 25 anni, danneggiando irreversibilmente la memoria e la capacità di orientamento». Gli effetti dannosi crescono proporzionalmente alla quantità e alla frequenza dei consumi.

Al potenziale cancerogeno vanno aggiunte le possibili conseguenze cardiovascolari, psichiche e comportamentali. Raccomandazioni che diventano più stringenti quando si ha di fronte una donna incinta, per i rischi potenziali a cui si espone il nascituro. «Quando la mamma beve, l’alcol passa la placenta alla stessa concentrazione del sangue materno. Una donna dovrebbe evitare gli alcolici anche quando programma di avere un bambino e durante l’allattamento», chiosa l’esperto. Da escludere, infine, anche i presunti “miracoli” del resveratrolo, per anni ritenuto responsabile del cosiddetto “paradosso francese”.

* Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, vicepresidente della Federazione Europea delle Società Scientifiche sulle Dipendenze (Eufas) e presidente della Società italiana di Alcologia

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MAurizio
MAurizio
24 Novembre 2015 19:46

Beh. Se ci sono paesi africani in cui il consumo di birra (alcolico, ma non certo “super”) potrebbe diventare un problema di salute pubblica, la cosa dovrebbe essere considerata anche per l’implicito risvolto “positivo” della notizia, se il tenore di vita dei locali è tale da permettersi un “abuso” di un genere alimentare non di prima necessità, prodotto per altro non da clandestine fabbriche di “felicità alcolica low cost” ma da industrie che cercano di trarre profitto da un commercio regolare di prodotti sicuri (e’ recente la notizia di una strage – letteralmente – tra i consumatori di birra “artigianale” contaminata – con 49 morti e centinaia di altri intossicati in Mozambico).
Senza contare che magari gli africani potrebbero sentirsi un attimo “perplessi” di fronte ad un ennesimo atteggiamento “paternalistico” da parte di “bianchi” pur animati da buone intenzioni…