Via via che la ristorazione torna alla normalità, emergono i cambiamenti determinati dalla pandemia, sia nelle abitudini che nelle esigenze dei clienti. I più giovani, hanno utilizzato il tempo dei lockdown e delle restrizioni per ripensare alle proprie abitudini e per informarsi, e oggi chiedono ai ristoranti di offrire menu più sani e, soprattutto, bevande meno caloriche percepite come poco naturali.
Le nuove tendenze sono emerse in uno studio pubblicato su PLoS One dai ricercatori australiani e neozelandesi, che hanno condotto un sondaggio su oltre mille persone, scoprendo che il 27% degli intervistati sarebbe disposto a pagare di più, fino al doppio del prezzo medio attuale, per bibite che avessero meno zucchero (o, meglio ancora, che non ne contenessero), nessun additivo di sintesi e sali minerali e vitamine. Sembra quindi che il pubblico più giovane si sia reso conto che, mentre ci sono diverse iniziative e sforzi di vario tipo sul cibo, lo stesso non accade per le bevande offerte dai ristoranti, dai caffè e dai bar. In particolare, si dice propenso a pagare di più chi mangia fuori casa almeno una volta alla settimana, e la disponibilità ad accettare prezzi più cari sale in proporzione alla frequenza dei pasti consumati all’esterno delle mura domestiche. Probabilmente ciò accade perché chi va con una certa al ristorante ha una maggiore disponibilità economica, e si rende conto anche del ruolo di numerose bibite nel bilancio delle calorie e in generale della salute.
La richiesta di bevande più sane riguarda prevalentemente il pubblico più giovane, con un’età compresa tra i 18 e i 24 anni, che è anche il più informato e il più sensibile alle tendenze salutistiche. Ma che cosa intendono i giovani australiani e neozelandesi quando esprimono il desiderio di una bevanda più sana? Innanzitutto acqua e succhi di frutta. Solo il 2%, poi, ritiene che le bibite con un dolcificante siano sane e naturali, a conferma del fatto che i ragazzi non cedono facilmente alla pubblicità salutistica delle bevande sugar free, e conoscono i rischi e gli aspetti negativi dei sostituti artificiali dello zucchero. Inoltre, per loro è ‘sana’ una bibita che non contenga affatto zucchero o additivi ma che, al contrario, possa avere qualche fonte di sali minerali o di vitamine. Infine, i ragazzi sanno ancora poco dei probiotici: meno dell’1% degli intervistati li ritiene sani, e la stessa esigua percentuale pensa che le bevande etichettate come biologiche siano sane.
Secondo gli autori, bisognerebbe approfittare di questa inclinazione proveniente dai più giovani. L’Australia ha tassi di obesità preoccupanti, con un 31% di adulti e un 8,2% di bambini interessati, mentre la Nuova Zelanda è in una situazione anche peggiore, con un tasso di obesità tra gli adulti che è al 35% e tra i bambini è al 17%. L’Australia ha varato la National Obesity Strategy, un progetto decennale (2022-2032) che dovrebbe modificare le abitudini dei cittadini sia per quanto riguarda la sedentarietà sia, soprattutto, per quanto concerne la dieta. Per le bevande non è previsto un ruolo di primaria importanza, anche se vista la situazione sarebbe opportuno adottare alcuni provvedimenti.
Da questo punto di vista, in attesa di modifiche al Piano, spiegano gli autori, i ristoratori potrebbero e dovrebbero fare la loro parte, dal momento che la vendita delle bibite rappresenta circa il 40% degli introiti. C’è di più, un terzo delle spese di una famiglia media, pari a circa 100 dollari australiani alla settimana, se ne va in pasti fuori casa, che fanno guadagnare ai gestori 45 miliardi di dollari all’anno. Visto che una buona parte dei clienti è disposta a pagare di più per bevande più sane – è la conclusione – non ci sono motivi per non andare incontro a questa richiesta, assicurandosi anche buoni margini di guadagno.
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Giornalista scientifica
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