Il caffè, bevuto regolarmente e in quantità non eccessive, diminuisce il rischio di morte generale e quello associato a diverse malattie. Lo conferma un grande studio pubblicato sugli Annals of Internal Medicine dai ricercatori della Southern Medical University, in Cina, che hanno analizzato i dati contenuti nel grande database britannico UK Biobank, relativi a oltre 171mila persone dell’età media di 55 anni senza una diagnosi di una patologia cardiovascolare o un tumore, seguite per almeno sette anni nel periodo compreso tra il 2009 e il 2018.
A tutti i partecipanti erano state poste domande in merito alle proprie abitudini alimentari e relative allo stile di vita quali, per esempio, il fumo, il consumo di alcolici, l’attività fisica e così via. Durante il periodo di osservazione, nel campione si sono verificati oltre 3.100 decessi, circa 1.700 dei quali per un tumore e 600 per una malattia cardiovascolare. Controllando le eventuali differenze tra chi beveva caffè e chi non ne consumava e tra chi lo preferiva amaro e chi aggiungeva zucchero o dolcificanti, gli epidemiologi hanno visto che un consumo di qualunque quantità di caffè amaro era associato a un effetto protettivo nei confronti della morte per qualunque causa compreso tra il 16 e il 21%, e che lo stesso effetto era visibile per chi beveva tra 1,5 e 3,5 tazze di caffè zuccherato al giorno, con una riduzione attorno al 30%. Per quanto riguarda i dolcificanti, invece, i risultati sono stati poco chiari e non hanno permesso di concludere nulla di definitivo.
La rivista (una delle più importanti di medicina a livello internazionale) riporta anche un editoriale, nel quale si evidenziano diverse criticità di questa indagine, a cominciare dal fatto che, essendo la popolazione in studio quella dei britannici, grandi bevitori di tè, oltre che di caffè, è possibile che ci sia qualche distorsione. Inoltre, non si tiene conto del fatto che, mentre il caffè bevuto a casa è stato considerato ‘zuccherato’ quando una tazzina conteneva anche un solo cucchiaino di zucchero, i prodotti a base di caffè consumati fuori casa, che non sono stati inclusi nello studio, non solo possono aumentare la quantità media quotidiana di caffè assunto, ma sono anche molto più zuccherati rispetto alla normale tazzina. Infine, resta da capire perché un caffè zuccherato sarebbe più benefico di uno amaro e perché i dolcificanti abbiano effetti dubbi. Ciononostante, il messaggio che se ne deve ricavare, scrive Christina Wee, editorialista degli Annals, è che i medici possono smettere di consigliare ai propri pazienti di evitare il caffè, a meno che non ci siano rischi specifici.
Del resto, questo lavoro si inserisce in una scia che ne ha visti pubblicare diversi negli ultimi mesi e anni, tutti o quasi di segno positivo. Uno degli ultimi, molto simile per le conclusioni e i dati su cui si basa, è stato presentato all’ultimo congresso dell’American College of Cardiology dai ricercatori dell’Università di Melbourne, in Australia, che hanno lavorato sugli stessi dati, suddividendoli però tra quelli di chi (in questo caso oltre 382.500 persone) non aveva una diagnosi di malattia cardiovascolare all’inizio della rilevazione, e quelli di chi invece ce l’aveva (circa 34.200). I partecipanti avevano un’età media di 57 anni e sono stati seguiti per almeno dieci anni.
Cercando associazioni tra chi non aveva patologie pregresse di tipo cardiovascolare e una serie di malattie quali le aritmie, gli ictus, gli infarti, e i decessi a esse associate, gli autori hanno notato in generale una riduzione del rischio compresa tra il 10 e il 15%, con un massimo di benefici per un consumo compreso tra due e tre tazze al giorno. Tra i cardiopatici si è visto lo stesso andamento e, soprattutto, non è emerso alcun rischio di aritmia o irregolarità del battito, uno degli eventi più spesso associati al consumo di caffè; per alcune tipologie, inoltre, la diminuzione è stata attorno al 20%.
Secondo gli autori, è necessario capire quali, tra gli oltre cento componenti attivi, potrebbe avere questa azione protettiva: molte di esse sono già note per abbassare l’infiammazione, migliorare la funzionalità di fegato e pancreas, la sensibilità all’insulina e il metabolismo. La caffeina non sembra essere la principale responsabile, anche perché una terza analisi degli stessi dati, questa volta suddivisi in base al tipo di caffè (con caffeina o decaffeinato), non ha fatto emergere alcuna differenza. Anche in questo caso, comunque, la conclusione è un invito ai medici di smettere di sconsigliare il consumo moderato di caffè, anche se si hanno malattie cardiovascolari.
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Giornalista scientifica