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È allarme per la resistenza agli antibiotici usati per l’uomo. L’uso eccessivo negli allevamenti ne è la causa

Cresce, in tutto il mondo, l’allarme per la resistenza agli antibiotici, e le autorità sanitarie, OMS in testa, riflettono su come correre ai ripari per evitare che malattie come quella da klebisella pneumoniae, da stafilococco aureo, da escherichia coli, da salmonelle, la malaria, la tubercolosi, diventino nemici contro i quali non si hanno più armi, e gli atti medici – interventi chirurgici in primo luogo – azzardi ad altissimo rischio, come previsto in diversi rapporti pubblicati negli ultimi mesi, alcuni dei quali prevedono non meno di dieci milioni di morti l’anno.

Tra le cause principali del rapido aumento di molti germi insensibili agli antibatterici vi è, secondo gli esperti, l’impiego crescente di antibiotici negli allevamenti, in aumento nonostante alcune prime timide dichiarazioni di intenti volti alla riduzione. Lo confermano, tra gli altri, due rapporti appena usciti, uno su PNAS, su 228 paesi emergenti, e uno sul sito della Food and Drug Administration, relativo agli Stati Uniti.

 

Nel primo i ricercatori della Princeton University, dell’International Livestock Research Institute e dei National Institutes of Health americani, hanno effettuato diverse stime secondo le quali tra il 2010 e il 2030 l’impiego di antibiotici negli allevamenti sarà cresciuto di due terzi a livello globale. Il raddoppio è previsto in paesi come la Cina, il Brasile, l’India e la Russia, dove il consumo di carne, uova, latte e derivati sale in misura preoccupante, in parallelo con l’urbanizzazione e con la crescita del numero e dell’estensione degli allevamenti.

 

In questi paesi, ricordano gli autori, la somministrazione di antimicrobici in basse dosi e in modo costante – cioè nelle condizioni ideali per selezionare ceppi resistenti – è prassi accettata e per lo più legale, le cui conseguenze potrebbero diventare drammatiche molto presto. La conferma viene da uno dei paesi-simbolo della trasformazione in atto: la Cina, che presto consumerà, per i suoi allevamenti, circa un terzo di tutti gli antibiotici prodotti a livello mondiale. Molto preoccupanti anche i numeri relativi ad altri grandi paesi emergenti quali Myanmar, per il quale è previsto un aumento di impiego di farmaci antibatterici del 205%, la Nigeria (+163%), il Perù (+160%) e il Vietnam (+ 157%).

 

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La Cina consumerà da sola un terzo degli antibiotici prodotti a livello globale

Ma la risposta alla domanda di cibo per quegli oltre 800 milioni di persone che ogni notte vanno a dormire senza aver potuto assumere un numero sufficiente di calorie – concludono gli autori – non può risiedere nell’ulteriore espansione degli allevamenti intensivi, che devastano l’ambiente senza fornire soluzioni definitive. Già oggi la produzione di calorie sarebbe più che sufficiente, e la questione risiede quindi nella riduzione degli sprechi e, in parallelo, nel miglioramento della sua distribuzione.

Nel rapporto della FDA, invece, l’attenzione è focalizzata sul mercato americano, dove tra il 2009 e il 2013 l’acquisto di antibiotici per gli animali è aumentato del 20%, con una crescita nell’ultimo anno preso in esame, e cioè quello compreso tra il 2012 e il 2013, del 3%.

 

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Tyson Foods e Purdue Farms hanno annunciato di voler diminuire o abolire l’impiego di antibiotici

A partire dal 2014, diversi grandi gruppi di produttori di carne come Tyson Foods e Purdue Farms hanno annunciato di voler diminuire o abolire l’impiego di antibiotici usati anche nell’uomo, soprattutto nel pollame. L’associazione di produttori North American Meat Institute ha dichiarato la propria adesione spontanea alle linee guida emesse dalla stessa FDA nel 2013, in accordo con le aziende farmaceutiche e quelle dell’agroalimentare per la graduale eliminazione degli antimicrobici come promotori della crescita, ma i risultati di tali iniziative episodiche si potranno vedere, nel caso ci siano, solo tra qualche mese.

La diffusione di infezioni incurabili potrebbe dunque presto diventare il frutto avvelenato di una politica che per decenni, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ha permeato le politiche agroalimentari prima dell’occidente, e poi dei paesi emergenti: quella dell’aumento esasperato della produzione di cibo, senza tener conto delle conseguenze ambientali e per la salute umana. Ma presto il cambiamento culturale auspicato da anni da molti gruppi ambientalisti ed esperti del settore potrebbe diventare una scelta obbligata.

 

Agnese Codignola

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Foto: iStockphoto.com

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