L’agricoltura rigenerativa è un approccio ineludibile, per un pianeta sempre più esausto che deve continuare a produrre alimenti, oppure è solo un’intelligente denominazione che non significa molto, e che le grandi aziende utilizzano per le loro operazioni di greenwashing? A questa domanda non esiste un’unica risposta, perché non esiste un’unica definizione di agricoltura rigenerativa. Ciascuno la declina come crede, a volte in base a specifici studi, a volte in base a ciò che è possibile fare in un certo luogo. Per questo anche i tentativi virtuosi rischiano di risultare inefficaci, o talmente isolati da essere privi di un reale impatto, sia pure limitato. E per questo, di per sé, non hanno molto significato iniziative come quelle di PepsiCo, che intende dedicare alla rigenerazione sette milioni di acri entro il 2030, o quella di Unilever, che ha reso noti i suoi Regenerative Agricolture Principles (con cinque aree prioritarie sulle quali intervenire), oppure quella di Nestlé, che nel 2025 avrà investito un miliardo di euro per implementare pratiche rigenerative tra i suoi fornitori.
Tutto ciò è messo in evidenza nel rapporto della Food and Land Use Coalition (FOLU), che cerca di fare un po’ di ordine e mettere a fuoco tutti gli interrogativi che sono sul campo, suggerendo alcune soluzioni. Innanzitutto, è necessario definire la degradazione del terreno, per capire in che modo intervenire. Secondo la Fao è “un cambiamento nello stato di salute del suolo che si traduce in una ridotta capacità dell’ecosistema di fornire beni e servizi ai suoi beneficiari”. Esistono molti tipi di degradazione fisica, chimica e biologica, tra i quali l’erosione, l’esaurimento della materia organica, la perdita di biodiversità, l’esaurimento dei nutrienti, la contaminazione, la compattazione, la salinizzazione, l’alcalinizzazione e il ristagno idrico. Lo scadimento della qualità del suolo, inoltre, è tipicamente un processo graduale, con effetti cumulativi, e anche per questo non è semplice definirla.
Ma ciò che rende ancora meglio l’idea del caos imperante, è la definizione, appunto, di agricoltura rigenerativa. Analizzando la letteraura scientifica (centinaia di pubblicazioni) e i documenti di alcune delle grandi multinazionali del cibo, gli autori ne hanno identificate ben 44, tutte diverse. L’unico aspetto positivo è che, nel il 61% dei casi, il termine implica un insieme di pratiche e non un solo rimedio: così deve essere, scrivono gli autori, se si vuole davvero che il suolo si rigeneri. Ma ciò spiega anche il passaggio successivo. Per valutare gli interventi, infatti, non li si può osservare da un solo punto di vista: è indispensabile considerare numerosi aspetti, e cioè il miglioramento dello stato di salute del suolo, indicato come obiettivo dall’86% degli studi, la capacità di sequestrare più carbonio (64%), l’aumento della biodiversità (46%), il miglioramento delle risorse idriche (46%) e quello delle condizioni economiche delle comunità locali (41%).
Per semplificare la valutazione, il rapporto li sintetizza però in tre filoni fondamentali: gli effetti sulla biodiversità, quelli che possono avere un impatto sul clima e quelli che ne possono avere uno sul raccolto, invitando considerare sempre anche il contesto. Il rapporto attribuisce così un punteggio alle pratiche rigenerative più diffuse, in base a quanto emerge dagli studi effettuati, da cui emergono quelle promosse, quelle bocciate, quelle che presentano elementi positivi e negativi, e quelle per le quali si sa poco.
Tra le promosse rientrano, da tutti e tre i punti di vista, l’agroforestazione, cioè la coltivazione contemporanea di alberi e colture da campo aperto, la rotazione delle colture e la coltivazione di almeno due specie diverse in file alternate (intercropping). Un’altra pratica, chiamata cover cropping, che consiste nel piantare nei campi o ai loro bordi piante non legnose, ha fatto registrare risultati altalenanti per quanto riguarda l’effetto sul clima, pur essendo positiva per gli altri due parametri. La semina di diverse cultivar di una stessa specie, invece, assolve solo la funzione relativa al raccolto, ma non va bene per le altre due, mentre la minimizzazione della lavorazione del terreno favorisce solo la biodiversità, così come accade quando piccoli campi sono bordati con fiori, siepi o arbusti. Interessante, poi, l’inoculazione nel terreno di specie ben determinate di funghi: di sicuro può aumentare le rese dei raccolti, ma sugli altri due parametri non ci sono studi e non è quindi possibile esprimersi.
Quanto ai tipi di coltivazioni, la più problematica è quella biologica, perché peggiora le rese e dà esiti variabili sulla biodiversità, ma produce effetti positivi per la mitigazione del cambiamento climatico. Modalità di gestione dei pascoli definite olistiche e l’utilizzo di alcuni materiali e tecniche biologiche (come i concimi) possono essere positivi per il clima. L’ultima è poi quella che prevede di integrare animali e colture: nessun effetto misurabile sui raccolti, incerta per gli altri due parametri perché, anche in questo caso, non ci sono stati abbastanza studi.
Ad emergere, infine, sono due grandi limiti di questo tipo di ricerche e sperimentazioni: le unità di misura, estremamente eterogenee, e soprattutto il fatto che, nella maggior parte dei casi, non ci sono dati sulla situazione di partenza, ed è quindi impossibile valutare eventuali miglioramenti.
Il rapporto si conclude con una dettagliata lista di raccomandazioni per i diversi destinatari (aziende, agricoltori, politici, società civile, benefattori, centri di ricerca), tutte incentrate sulla trasparenza, per quanto possibile, sulla necessità di ricorrere a pratiche di comprovata efficacia e, per quanto riguarda la parte accademica (e industriale, laddove possibile), a quella di condurre studi di qualità elevata, con metodi omogenei e che tengano in considerazione le condizioni di partenza.
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Giornalista scientifica
Dopo aver visto per decenni il disonore che circonda l’agricoltura biologica e biodinamica per il solo fatto di produrre un poco meno quantitativamente temo che si finirà per fare molta confusione sia sulle parole scritte che sulle azioni in campo, mentre la deriva continuerà.
Per i risultati poi bisognerà vedere –con calma— un qualche esempio realizzato ed esaminato in maniera seria e indipendente, ma servirà appunto molta calma perchè la rigenerazione ambientale, quando è possibile non sempre a seconda delle condizioni di partenza, richiede tempi medio-lunghi e idee chiare sugli obiettivi da raggiungere, a livello locale ma anche globale.
Dal momento che tra i principi base odierni al contrario ci sono la fretta e il vantaggio economico, in molte e diverse forme, rimane da sperare che magari anche solo involontariamente il lupo perda il vizio, mai dire mai.
…una cosa che non ho letto nell’articolo. Certo non ha valore scentifico, nè ha parametri misurabili.
Credo andrebbe “usata” la mentalità contadina, quella di qulche decennio fa intendo.
La stessa mentalità sulle risorse naturali che avevano gli indiani d’America.
Una visione a lungo termine e non quella attuale del bilancio annuale dell’azienda agricola.
Guardare lontano, seminano e allevando come per un investimento a lunghissimo termine.
Non quanto rende un ettaro quest’anno ma, mediamente, nei prossimi 50 o 100 anni.
Quando costa e rende irrigare ora in un certo modo e quanto questo influisce sul mio e sull’altrui terreno/città/stato/continente…. farlo con una tecnica o con un’altra.
Ci siamo abituati a ragionare sull’oggi.
Non è sufficiente farlo anche se ci allarghiamo alla durata della nostra vita.
Se la vita è presonale non lo è certo il resto dell’ambiente.
Lo abbiamo solo in prestito.
Una volta nei testi di agronomia si parlava di rotazioni necessarie per rigenerare il terreno come alternare al grano le leguminose per l’apporto di azoto.Ora c’e’ la monocultura di mais, di frutteti ,di viti ecc.e la rigenerazione del terreno avviene con concimi chimici o con letame naturale di allevamenti di animali trattati ad antibioti ed ormoni o letame compostato da scarti o fanghi chimici.
Nella rinomata Langa, oltre alla viticoltura (ormai di prodotti di eccellenza ed economicamente poco avvicinabile al consumatore ordinario), si è diffusa la corilicoltura (coltura della nocciola) che ha sì prodotto un buon reddito, ma ha di fatto “piallato” ogni altra cultura, azzerando le biodiversità langarole: patate, fagioli, mais 8 file, ….
Adesso, per poter produrre più vino “nobile”, l’Alta Langa Docg, ricchi produttori di vino stanno acquistando terreni e boschi in Alta Langa per piantare vigneti, con la promessa di ripiantare i boschi in altri siti, che naturalmente ci metteranno quei 50 anni per crescere. Ma dobbiamo proprio bere ancora altro vino frizzante? Non ci basta aver rovinato zone e reputazioni in altri luoghi d’Italia?
Poi si scopre che le piante tartufigene non ci sono più… e il famoso Tuber Magnatum Pico d’Alba proprio locale non è ,e viene pagato come lo zafferano a peso d’oro.
E poi il contadino, scarpe grosse e cervello fino, anche nella Langa e vicino a zone Unesco, ha scoperto quanto sia vantaggioso sotterrare rifiuti, più o meno chimici.