acquacoltura

acquacoltura mediterraneoIn Europa, da una parte l’acquacoltura fatica a decollare a livello industriale, dall’altra dimostra una forte tendenza all’innovazione, necessaria anche per cercare di superare le obiezioni che ne frenano lo sviluppo, riguardanti fondamentalmente l’impatto ambientale dell’allevamento di pesci in acqua salata o dolce, e la loro salute a causa degli spazi ristretti. Proprio per fare il punto sulla situazione attuale e sulle prospettive legate all’innovazione, a fine agosto si è tenuto in Francia, a Montpellier, il congresso mondiale Aqua2018, che ha visto tra i suoi protagonisti la Fao, l’organizzazione dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione, e il Cirad, il Centro francese di ricerca agronomica per lo sviluppo.

Nel 2016, la produzione mondiale di pesce da acquacoltura ha raggiunto 110,2 milioni di tonnellate, per un valore stimato in 210 miliardi di euro alla prima vendita. La Cina, da sola, contribuisce per il 60% alla fornitura mondiale e l’Asia nel suo complesso per il 90%. L’Asia è il principale esportatore globale di prodotti da acquacoltura e l’Unione europea il maggiore importatore mondiale. Due terzi del valore delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo vanno ai paesi sviluppati.

Secondo le stime della Fao, il consumo medio di pesce annuo pro capite a livello mondiale è passato dai 9 kg del 1961 ai 20,5 kg del 2017, con una domanda, nel 2016, pari a 171 milioni di tonnellate, che non può essere soddisfatta dalla sola pesca, anche se condotta in modo sostenibile e responsabile. Per questo, l‘acquacoltura è il settore di produzione animale che negli ultimi decenni ha fatto registrare la maggiore crescita, tanto è vero che oggi più della metà del pesce consumato (53%) deriva da allevamento. L’aumento della popolazione e i benefici nutrizionali del pesce fanno prevedere che questa tendenza proseguirà nei prossimi anni. Il rapido aumento della produzione del pesce da allevamento, però, ha avuto anche impatti ambientali e sociali negativi, oltre a rischi di patologie e di maggior mortalità nella popolazione ittica, che ora si cerca di ridurre.

Uno dei nuovi approcci è costituito dall’integrazione tra acquacoltura e agricoltura, che si può tradurre in varie applicazioni: l’acquaponica, che combina acquacoltura e idroponica, cioè la coltivazione di ortaggi fuori terra, fertilizzati dai materiali emessi dai pesci, trasformati in nitrati e fosfati, e rappresenta una tecnica adatta a regioni con scarsità di acqua, come il Nord Africa e il Medio Oriente; l’acquacoltura integrata multitrofica, che utilizza gli scarti dei pesci come nutrienti per altri organismi, come i molluschi filtratori e le macro-alghe; gli allevamenti di insetti per nutrire i pesci o le tecniche di biocontrollo, come l’uso del  Lompo (Cyclopterus lumpus) per combattere i pidocchi del salmone atlantico.

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Il Cirad sta sperimentando in Madagascar e in Guinea la risipiscicoltura, già praticata in alcuni Paesi asiatici, che unisce risicoltura e allevamento dei pesci

Un esempio di approccio agro-ecologico è la risipiscicoltura, una tecnica di gestione biologica della risaia che consiste nella simultanea coltivazione del riso e di pesci, come la carpa, all’interno dello stesso ecosistema, con la conseguente eliminazione dei trattamenti chimici. Si tratta di una tecnica tradizionalmente utilizzata in Paesi asiatici come Cina e Vietnam, che il Cirad sta sperimentando in Madagascar e Guinea. “Scavando il fango del fondo, i pesci favoriscono la risospensione dei sali nutritivi di cui il riso ha bisogno per la sua crescita”, spiega Lionel Dabbadie, ricercatore del Cirad. “Da parte sua, il pesce si nutre mangiando gli organismi perifiton che si sviluppano sui gambi delle piante”. In questo sistema agro-ecologico integrato, “non produciamo solo due alimenti nello stesso spazio, ma produciamo anche più di quanto avverrebbe se fossero coltivati ​​separatamente”.

Ma c’è un altro aspetto che l’acquacoltura deve affrontare ed è quello dell’abuso di antibiotici nell’allevamento dei pesci, come testimoniano anche i residui riscontrati più volte nei gamberetti esportati dall’Asia verso gli Stati Uniti. I residui di questi farmaci negli allevamenti ittici contribuiscono al grave problema della resistenza antimicrobica e quindi è importante fronteggiarlo, anche tendendo conto che l’acquacoltura fornisce già metà del consumo mondiale di pesce e che questo rapporto dovrebbe aumentare. Una via che il Cirad sta sperimentando con altri partner scientifici è l’applicazione della fitoterapia nell’acquacoltura, che si rifà a un’antica pratica usata nei paesi asiatici e in Madagascar, che consiste nell’utilizzo di piante medicinali per il trattamento e la prevenzione di malattie, principalmente batteriche e fungine. Queste piante vengono utilizzate nell’alimentazione dei pesci o direttamente negli stagni d’allevamento.

Come spiega Samira Sarter, ricercatrice del Cirad, le sperimentazioni di laboratorio in corso e le analisi sul campo stanno studiando le proprietà antibatteriche di alcune piante, come la verbena esotica (Litsea cubeba), le cui foglie aggiunte all’alimentazione dei pesci sotto forma di polvere stanno indicando un rafforzamento del sistema immunitario delle carpe e soprattutto un migliore tasso di sopravvivenza dopo l’infezione con il batterio patogeno Aeromonas hydrophila.

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ezio
ezio
24 Settembre 2018 19:42

Non ho compreso perché il settore dell’acquacoltura in via di sviluppo ed innovazioni stenti a decollare se rappresenta già il 53% dei consumi di pesce.
Naturalmente lo sviluppo va controllato ed indirizzato verso quei metodi meno invasivi più naturali e meno medicalizzati come purtroppo sono molti allevamenti e come l’articolo riferisce correttamente.
Naturalmente meglio una forte prevalenza di pesce ben allevato, che una pesca libera ed incontrollata spesso distruttiva per molte specie ed i fondali marini.
Ma questa è un’altra delle storie mal gestite da sempre e da tutti i paesi.