Frutti di bosco surgelati: 1.787 persone colpite dall’epidemia di epatite A per sottovalutazione del rischio e assenza di informazioni. Trasferiti i funzionari. Resta l’allerta del Ministero
Frutti di bosco surgelati: 1.787 persone colpite dall’epidemia di epatite A per sottovalutazione del rischio e assenza di informazioni. Trasferiti i funzionari. Resta l’allerta del Ministero
Roberto La Pira 6 Febbraio 2015In Italia l’epidemia causata dai frutti di bosco surgelati contaminati dal virus dell’epatite A ha colpito 1.787 persone. Secondo un documento ufficiale diffuso dal Ministero della salute in risposta ad un’interrogazione del Movimento 5 Stelle, “la situazione di crisi si deve considerare superata considerando la riduzione dei casi di malattia riconducibili al consumo di frutti di bosco “. Gli ultimi episodi però risalgono al mese di agosto del 2014, quando si è registrata un’improvvisa ripresa dei ricoveri che ha allertato le autorità sanitarie. Purtroppo stiamo parlando dell’epidemia di origine alimentare più importante negli ultimi 30 anni, che il Ministero della salute è riuscito abilmente a tenere sotto traccia, diffondendo poco e male i nomi dei prodotti ritirati e, soprattutto, non informando in modo adeguato i consumatori.
Nel corso dell’epidemia sono stati identificati 15 lotti contaminati e 45 lotti sono stati classificati come “sospetti” e le aziende coinvolte sono state 11. Nonostante il numero elevato di lotti ritirati il Ministero ha diffuso poco male e in modo anche errato le informazioni sui lotti ritirati dal mercato, dimenticando spesso di affiancare le foto dei prodotti contaminati.
La sensazione è che si sia fatto di tutto per soffocare le notizie e purtroppo il sistema ha funzionato. Il Fatto Alimentare è stato uno dei pochi siti che ha seguito sin dall’inizio questa storia e, più di una volta, ha dovuto superare silenzi e barriere burocratiche i per avere notizie. Per rendersi conto della gravità l’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha diffuso un dossier sull’epidemia e a Roma è stata allestita una task force.
Riconosciamo le oggettive difficoltà che hanno impedito di risalire all’origine del focolaio (mancanza di una tracciabilità dei lotti, complessità della filiera…) e che non hanno permesso agli esperti in questi due anni di individuare un unico punto di contaminazione in grado di collegare i casi e i lotti. Le ipotesi più probabili dell’origine della contaminazione focalizzano l’attenzione su ribes rossi contaminati importati dalla Polonia e di more arrivate dalla Bulgaria. È vero che alla fine anche gli esperti europei non sono riusciti ad individuare il focolaio, ma quello che è più grave è la scelta di non voler informare in modo adeguato milioni di persone. Solo così si può spiegare il numero esagerato di soggetti colpiti in Italia. A fronte di poche decine di casi in Europa, in Italia si sono registrati 1.787 casi di epatite A in Italia che rappresentano oltre il 95% del totale (vedi grafico sopra).
Il Ministero della salute dichiara di avere informato i cittadini rilasciando interviste a diverse riviste a costo zero e “in tempi ristretti considerando il carattere di urgenza che la questione richiedeva”. La realtà è leggermente diversa, l’epidemia è rimasta una vicenda sconosciuta per decine di milioni di italiani, che hanno continuato a mangiare tranquillamente frutti di bosco e dolci preparati con questi frutti ignare del pericolo. Non ci sono state conferenze stampa per informare la gente e i giornalisti e i dati sulle persone contaminate sono stati diffusi con il contagocce prima ogni mese, poi ogni sei mesi. Nessuno si è reso conto che era in corso un’epidemia? Il Ministro della salute che rilancia sempre in rete le imprese dei Nas, e parla sempre di sicurezza alimentare, non si è accorto che i frutti di bosco contaminati colpivano centinaia di persone ogni mese?
Il Ministero non ha saputo fare una corretta valutazione del rischio, e questo è gravissimo, visto che alla base della normativa sulla sicurezza alimentare in vigore sin dal 2002, c’è proprio questo concetto. C’è di più, la disastrosa comunicazione nei confronti dei cittadini è l’altro imperdonabile errore che ha contribuito a diffondere l’epidemia in Italia. Anche la fine di questa storia dimostra la volontà di nascondere dati e numeri. Più volte Il Fatto Alimentare ha chiesto un aggiornamento della situazione senza ricevere alcuna risposta. C’è voluta un’interrogazione parlamentare per capire fino in fondo la gravità dell’epidemia durata 24 mesi. C’è un ultimo elemento che va registrato, otto mesi fa i funzionari che hanno seguito la crisi sono stati trasferiti ad altro servizio, anche se non sapiamo i motivi di questa decisione. La tragica realtà è che la prossima epidemia alimentare potrebbe essere gestita con le stesse modalità.
Aggiornamento
Poche ore dopo dopo la pubblicazione del nostro articolo il Ministero della salute ci ha scritto dicendo che ritiene “necessario mantenere una particolare attenzione sulla sorveglianza dell’Epatite virale A” e ritiene altresì necessario “evitare il consumo di frutti di bosco crudi” ribadendo i consigli del manifesto diffuso nel dicembre 2013.
Roberto La Pira
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
E adesso permettono pure di omettere in etichetta la rintracciabilita’ dello stabilimento di produzione
cosi’ le multinazionali fanno i comodi loro e la piccole
imprese artigiane devono tremare per una virgola.
Il consumatore ha un solo potere, non comperare certi prodotti e rivolgersi a prodotti artigianali ( Km 0 )
Il problema è che avevano relazioni tecniche a riguardo già da tempo.
Non sono stati fatti controlli e/o sensibilizzazioni mirati. Come sempre quando non solo si sottovaluta, ma fa solo chi non sa…
L’informazione si poteva tranquillamente dare con piccoli accorgimenti di vigilanza.
Speriamo che questa vicenda, che ha avuto come protagonista un alimento di origine vegetale, trattato dall’industria, faccia capire che nelle ASL oltre a veterinari, medici e tecnici della prevenzione, sarebbero utili anche i tecnologhi alimentari. Ossia la figura che aveva la preparazione più adeguata ad affrontare questo problema.