Rivedere la politica dell’occupazione delle terre in Africa e Asia (land grabbing) per sfamare il mondo. Uno studio del Politecnico di Milano
Rivedere la politica dell’occupazione delle terre in Africa e Asia (land grabbing) per sfamare il mondo. Uno studio del Politecnico di Milano
Roberto La Pira 5 Luglio 2014Secondo uno studio pubblicato sulla rivista sul periodico Environmental Research Letters edito da IOP Publishing la coltivazione delle terre coinvolte nel fenomeno del “land grabbing” (acquisto su vasta scala di terreni da parte di multinazionali e governi) nei paesi in via di sviluppo potrebbe sfamare almeno 300 milioni di persone in tutto il mondo. Stiamo parlando di 31 milioni di ettari che dal 2010 a oggi sono stati comprati o presi in affitto da investitori stranieri. Per capire l’entità bisogna paragonare questa cifra ai circa 190 milioni di individui che potrebbero essere nutriti da queste terre nelle condizioni attuali. Il potenziamento delle infrastrutture dovuto agli investimenti stranieri potrebbe incrementare la produttività dei terreni agricoli in paesi come la Papua Nuova Guinea, il Sudan, l’Indonesia etc. Il land grabbing” è una pratica molto controversa che crea numerosi conflitti soprattutto in Africa dove moltissime acquisizioni sono avvenute in regioni con problemi di sicurezza alimentare e di malnutrizione e togliendo in modo violento terreni ai residenti.
C’è chi sostiene che tali investimenti in agricoltura miglioreranno significativamente le rese colturali, genereranno nuovi posti di lavoro e porteranno nuove conoscenze e infrastrutture in aree spesso deprivate. Chi si oppone dice che l’accaparramento avviene senza il consenso delle popolazioni locali e parlano di neocolonialismo. Per quanto riguarda l’aspetto economico si dice che i prodotti coltivati vengono esportati dagli investitori in altri paesi, e quindi che le acquisizioni sottraggono alle popolazioni locali il controllo dei terreni, delle risorse idriche e naturali, lasciandole in una condizione peggiore rispetto a quella attuale. Lo studio italo-americano svolto dai ricercatori del Politecnico di Milano e dell’Università della Virginia ha quantificato la massima quantità di cibo che può essere prodotta da colture coltivate nelle terre del land grabbing e il numero di persone che queste potrebbero sfamare. I risultati sono stati confrontati con la produzione agricola attuale e con il numero di persone che vivono con questi raccolti.
I ricercatori hanno considerato le acquisizioni di terreni con una superficie superiore a 200 ettari, avvenute dal 2000 al 2013 e calcolato il massimo rendimento potenziale della coltura e quindi le calorie dell’alimento per stabilire il numero di persone che si potrebbero nutrire. Secondo questi calcoli, se tutti i terreni acquisiti venissero coltivati al massimo del loro potenziale di resa come avviene in occidente, la produzione di riso, mais, canna da zucchero e palma da olio aumenterebbe rispettivamente del 308%, 280%, 148% e 130%. In altre parole si potrebbero nutrire da 300 a 550 milioni di persone, contro i 190-370 milioni di persone che risulterebbero nutrite da tali terre con le attuali tecnologie.
Sempre secondo i risultati, la classifica dei paesi più coinvolti nel fenomeno del
“land grabbing” vede in testa l’Indonesia, seguita dalla Malesia, dalla Papua Nuova Guinea e dall’ex Sudan, anche se la maggior parte del terreno si trova in Africa. Complessivamente questi paesi potrebbero fornire (nel caso di produzione massima) l’82% delle calorie ottenibili dalla coltivazione di tutte le terre acquisite.
“La nostra ricerca – spiegano Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano e Paolo D’Odorico dell’Università della Virginia autori dello studio – ha fornito una valutazione sul quantitativo di cibo potenzialmente producibile in questi terreni. Se questi alimenti venissero utilizzati per nutrire le popolazioni locali potrebbero alleviare la malnutrizione senza la necessità di fare investimenti per aumentare la resa colturale”. In altre parole il mondo è in grado di produrre cibo per sfamare tutte le persone ma poi nella realtà ci sono molti paesi che subiscono il land grabbing e hanno grossi problemi di malnutrizione perché i terreni vengono destinati alla coltura di materie prime destinate all’esportazione.
“Secondo gli autori ci sono ancora domande aperte che aspettano risposte: come vengono gestiti i terreni acquisiti? Gli alimenti prodotti sono esportati? I terreni oggetto di land grabbing venivano già utilizzati per scopi agricoli prima dell’acquisizione? Se sì, per quali coltivazioni? Con quale resa? Ottenere risposte a queste domande permetterebbe di quantificare la diminuzione degli alimenti disponibili per le comunità locali e aiuterebbe a trovare strategie per ridurre le possibili conseguenze negative del land grabbing”.
Sara Rossi
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Foto: iStockphoto.com
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
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