Otto aggressioni al giorno contro persone, case, pozzi, campi e uliveti. È la media documentata dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) in diversi periodi tra il 2024 e il 2025 nei villaggi della Cisgiordania: il livello più alto registrato da quasi vent’anni. Ma molte violenze non vengono nemmeno denunciate o censite: intimidazioni, spari, pestaggi, incendi dolosi, distruzione delle coltivazioni. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dalla fine del 2023 a oggi oltre mille palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, nel contesto dell’occupazione illegale del territorio , delle operazioni militari e degli attacchi dei coloni armati. Un bilancio che continua ad aggravarsi nel 2025 e che colpisce in larga parte civili.
A guidare molte di queste aggressioni sono gruppi di coloni, spesso armati, che operano con un livello di impunità documentato da organizzazioni internazionali per i diritti umani, mentre una parte del governo israeliano invoca apertamente l’annessione della Cisgiordania. In questo clima, la Knesset, il parlamento d’Israele, ha avviato e discusso iniziative legislative volte a estendere la legislazione israeliana agli insediamenti, una prospettiva che la Corte internazionale di giustizia ha definito incompatibile con il diritto internazionale nel suo parere del luglio 2024.

Datteri, avocado, vino…
In questo contesto, parlare di etichette, datteri e avocado può sembrare marginale. Ma non lo è. Perché una parte di quei prodotti agricoli – coltivati su terre espropriate o sotto il controllo degli insediamenti – arriva anche nei supermercati europei, spesso senza che il consumatore sia messo nelle condizioni di capire da dove provengono davvero e quale realtà contribuiscono a sostenere.
A giugno 2024 nove Stati membri dell’Unione europea – Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia – hanno scritto alla Commissione europea e all’Alta rappresentante per la politica estera chiedendo di valutare misure concrete per evitare che il commercio europeo contribuisca al mantenimento degli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati. La richiesta si fonda sull’ultimo parere della Corte internazionale di giustizia, che ha stabilito che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi è illegale e che tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscerla né di fornirle assistenza economica. «Gli Stati devono astenersi dal mantenere relazioni economiche che possano rafforzare la presenza illegale di Israele nei territori palestinesi occupati», afferma la Corte.
Il diritto internazionale
Le esportazioni israeliane dagli insediamenti rappresentano solo una piccola frazione del commercio complessivo con l’Unione europea. Proprio per questo, eventuali restrizioni avrebbero soprattutto un valore politico e giuridico: segnalare che l’UE intende rispettare e far rispettare il diritto internazionale.
L’Irlanda ha assunto la posizione più avanzata. Nel 2024 il governo ha approvato un disegno di legge che mira a vietare l’importazione di beni prodotti negli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, escludendo esplicitamente le merci palestinesi. Il provvedimento, ancora oggetto di confronto giuridico a livello europeo, rappresenta il primo tentativo formale di uno Stato membro di introdurre un divieto nazionale fondato sul diritto internazionale, nonostante le possibili pressioni diplomatiche e commerciali. Anche i Paesi Bassi hanno irrigidito la propria posizione, annunciando l’intenzione di rafforzare le restrizioni commerciali sugli insediamenti.
Nel settembre 2024 il governo spagnolo ha annunciato nuove misure per impedire che prodotti provenienti dagli territori occupati illegalmente dagli israeliani entrino nel mercato nazionale. Anche la Slovenia ha dichiarato l’intenzione di adottare provvedimenti analoghi, in coerenza con il parere della Corte internazionale di giustizia.

Una tracciabilità opaca
A livello europeo, le merci provenienti dagli insediamenti israeliani non possono accedere ai dazi preferenziali previsti dall’Accordo UE–Israele e dovrebbero essere identificate in dogana come provenienti dai Territori Palestinesi Occupati (Cisgiordania, Alture del Golan, Gerusalemme Est, Gaza) (codice PS) e non da Israele (IL).
Nella pratica, però, la tracciabilità resta opaca. Le aziende con sede negli insediamenti esportano spesso utilizzando indirizzi “ufficiali” in Israele, rendendo difficile per i controlli doganali – e impossibile per il consumatore – distinguere l’origine reale dei prodotti. Datteri Medjoul, avocado, pomodori ciliegino, erbe aromatiche e vino sono tra i prodotti segnalati dalle organizzazioni internazionali.
Nonostante l’ampia base giuridica internazionale e la crescente pressione europea, l’Italia non ha assunto alcuna posizione concreta su un tema che riguarda direttamente i consumatori e il mercato alimentare. Mentre altri Paesi discutono divieti, rafforzano i controlli doganali o intervengono sull’etichettatura, Roma non ha avviato né un dibattito parlamentare né iniziative amministrative. Anzi le importazioni di prodotti alimentari sono in forte crescita negli ultimi due anni.
Acquistare un pacco di datteri o un vassoio di pomodori confezionati in un insediamento israeliano significa, anche involontariamente, contribuire a un sistema fatto di espropri di terra, violenze e discriminazioni documentate dalle Nazioni Unite.
Quali prodotti arrivano in Europa (e in Italia)
Tra i prodotti agricoli e alimentari esportati da Israele verso l’Unione europea – e presenti anche nei supermercati italiani – figurano soprattutto frutta e verdura fresca: avocado, datteri (in particolare la varietà Medjoul), melagrane, agrumi, manghi, pomodori e erbe aromatiche spesso coltivate su terre sottratte ai palestinesi.
Per il consumatore europeo – e italiano in particolare – distinguere l’origine reale di questi prodotti è estremamente difficile. Molto spesso frutta e verdura vengono etichettate semplicemente come “Made in Israel” o “Produce of Israel”, senza indicazioni precise sull’area di coltivazione: Cisgiordania, Valle del Giordano.

Datteri made in Israel?
Le norme europee prevedono che le merci provenienti dai territori occupati non beneficino delle stesse agevolazioni tariffarie riservate ai prodotti israeliani “legali”. Tuttavia, come segnalano da anni le ONG e gli stessi organi europei, i controlli e l’etichettatura non sono sufficienti a garantire il rispetto di questa distinzione lungo la filiera. In pratica, per chi fa la spesa non esiste una tracciabilità chiara e accessibile: salvo iniziative isolate o segnalazioni occasionali su singole catene, non ci sono strumenti pubblici che consentano di sapere se un avocado o un pacco di datteri provengano da un insediamento o meno. La sola indicazione “Made in Israel” non è sufficiente, e ottenere informazioni sull’origine territoriale precisa è quasi impossibile.
Nessun elenco “sicuro” per i consumatori
Oggi non esiste un elenco pubblico, completo e verificabile che permetta di distinguere con certezza i prodotti provenienti dagli insediamenti da quelli coltivati all’interno dei confini riconosciuti di Israele. È una lacuna che rende di fatto inefficace il diritto del consumatore a una scelta informata.
Resta però un dato di realtà: prodotti come avocado, datteri, agrumi, melagrane, pomodori e altra frutta e verdura fresca importati da Israele provengono spesso dai territori occupati, anche quando l’etichetta non lo indica. Ed è proprio questa opacità – non la scelta individuale del consumatore – il nodo che alcuni Stati europei stanno cercando di sciogliere con divieti e restrizioni. In Italia, invece, tutto resta immobile.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24


