Se ne parla di meno, ma la presenza di virus dell’influenza aviaria H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) nei bovini da latte e in altri animali presenti negli allevamenti degli Stati Uniti è rimasta pressoché immutata rispetto alla scorsa stagione invernale. Non sono stati presi provvedimenti decisivi, e dato che finora non ci sono stati casi gravi di trasferimento all’uomo, per il momento la sensazione è che si continui così, con controlli limitati e nessun cambiamento drastico.
In questo scenario c’è però uno studio che pone interrogativi nuovi, perché dimostra che il virus, a differenza di quanto si pensava, può sopravvivere a lungo nel formaggio fatto con latte non pastorizzato, a meno che non si tratti di un prodotto a elevata acidità come la feta greca.
L’indagine della Cornell University
Lo hanno scoperti i ricercatori della Cornell University di New York, che hanno voluto verificare l’eventuale presenza di virus in campioni di formaggio realizzato in laboratorio, seguendo i passaggi che normalmente hanno luogo in un caseificio, ma anche in campioni di formaggio commerciale, provenienti dai supermercati locali. Inoltre hanno controllato la reazione di un modello animale molto utilizzato perché sensibile ai virus influenzali, il furetto, all’ingestione di formaggio contaminato.
Come illustrato su Nature Medicine, tutto è nato dai dati che avevano già mostrato che H5N1 sopravviveva a lungo nel latte crudo e dalle condizioni che la Food and Drug Administration considera sicure per un formaggio ottenuto appunto con latte non pastorizzato. Secondo i regolamenti attuali, bastano 60 giorni di stagionatura a una temperatura pari o superiore a 1,6°C, perché in questo arco di tempo l’umidità presente viene drasticamente ridotta e i batteri nocivi presenti, teoricamente, muoiono.

Lo studio sul virus dell’aviaria
Quindi, al fine di controllare da vicino la sorte del virus nel formaggio, i ricercatori hanno creato piccole forme, da circa cinque grammi, con latte crudo contaminato da H5N1 e hanno atteso più giorni, dimostrando che H5N1 era ancora vitale dopo 120 giorni di stagionatura a 3,8 °C. Almeno per quanto riguarda il virus dell’aviaria, quindi, il protocollo valido per altri formaggi a latte crudo non è sufficiente.
Un fattore chiave è però il pH, che potrebbe essere di grande aiuto. La maggior parte dei formaggi ha un pH acido, inferiore a 7: per esempio, il cheddar è attorno a 5,4 e il camembert a 7; alcuni come la feta sono decisamente più acidi, e non superano un pH di 4,6. Controllando la sopravvivenza del virus, gli autori hanno visto che esso è vitale quando il pH è compreso tra 5,8 e 6,6, ma muore quando il pH è uguale o inferiore a 5. In quel caso, non c’è traccia di virus. L’acidità sembra quindi essere una barriera di fronte alla quale il virus soccombe. La controprova si è avuta aggiungendo concentrazioni crescenti di acido lattico ai preparati: le analisi hanno confermando che all’abbassamento del pH corrisponde la progressiva scomparsa del virus.
Infine, gli autori hanno analizzato quattro forme di formaggio commerciale inviate loro dalla FDA perché sospette, che sono risultate effettivamente contaminate.
I test sui furetti
Per studiare ancora meglio la pericolosità del formaggio che contiene virus dell’aviaria, i ricercatori lo hanno somministrato ad alcuni furetti, dando ad altri latte crudo e contaminato. Il risultato è stato rassicurante, perché alcuni dei furetti che hanno bevuto il latte con l’aviaria si sono contaminati (non tutti), mentre nessuno di quelli che ha mangiato il formaggio è risultato infetto. Secondo gli autori, la differenza potrebbe risiedere nel modo con il quale i due alimenti interagiscono con l’organismo: mentre il latte riesce a diffondersi meglio e a entrare in contatto con molte membrane anche della bocca e delle prime vie aeree, il formaggio vi resta brevemente e poi entra nello stomaco, dove l’acidità potrebbe distruggere il virus.
La prevenzione
Quanto scoperto mette in evidenza la necessità di un atteggiamento di maggiore cautela, nei confronti di questo tipo di formaggi. Oltre ad analizzare il latte prima che entri nel processo di produzione del formaggio, ammettendo solo quello privo di virus, si può scaldare il latte anche a temperature inferiori a quelle della pastorizzazione, che possono essere sufficienti per disattivare i virus, pur mantenendo il latte “crudo”. Oppure si può giocare con il pH, aggiungendo acido lattico o batteri che fanno una fermentazione acida, per abbassarlo e avere così maggiori garanzie di eliminazione del virus.
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Giornalista scientifica



Estremamente interessante: per la notizia (che ci avvisa sulle cautele da adottare, a maggior ragione con i soggetti fragili, siano essi infanti, anziani, malati o convalescenti). Ma pure per le misure da assumere nel processo produttivo (produttori! iscrivetevi alla newsletter de IlFattoAlimentare!).