Secondo un recente studio il 45% delle acque potabili negli Stati Uniti sono contaminate da PFAS. In Francia una ricerca pubblicata il 23 gennaio 2025 dall’associazione di consumatori Que Choisir su campioni di acqua prelevati in 30 città, ha evidenziato la presenza diffusa e capillare di PFAS, anche se i livelli rientrano nei parametri stabiliti dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).
Anche un rapporto della Pesticide Action Network (PAN Europe) intitolato “TFA: la sostanza chimica perenne nell’acqua che beviamo” segnala la presenza generalizzata di PFAS. Il dossier analizza 55 campioni di acqua potabile di 11 Paesi (tra i quali non figura l’Italia) e si è visto che il TFA risulta presente nel 94% dei casi. Per valutare quanto la contaminazione sia diffusa, il documento riporta l’esito di analisi condotte su 17 campioni di acqua minerale e due di acqua di sorgente. Il risultato è sovrapponibile a quello dell’acqua di rubinetto, anche se leggermente migliore.
In Italia non ci sono per il momento dati ufficiali. Siamo in attesa di quelli presi in considerazione dal sistema AnTeA (Anagrafe Territoriale dinamica delle Acque potabili) di prossima pubblicazione. Secondo una recentissima rilevazione nazionale condotta da Greenpeace gli PFAS sono presenti nel 79% dei campioni di acqua potabile prelevati in 235 città.
Limiti degli PFAS
I parametri che entreranno in vigore dal gennaio 2026 prevedono per il momento una presenza massima nell’acqua di rubinetto di 100 ng/l. Il Decreto 18/2023 stabilisce che entro il 12 gennaio del 2026 le autorità sanitarie e i gestori delle reti pubbliche dovranno rispettare nuovi parametri per diversi inquinanti fra cui bisfenolo A, clorato e anche PFAS totale (limite 500 ng/l) oppure somma di PFAS (limite 100 ng/l). In questo ultimo caso si considerano 24 sostanze, integrando le 20 previste dalla direttiva con ulteriori composti di particolare rilevanza nel contesto nazionale e, nei prossimi sviluppi normativi, ulteriori 6 PFAS di più recente emergenza. Quando questa somma supera i 100 nanogrammi per litro (ng/l), l’acqua sarà considerata non potabile. I fornitori di acqua potabile nelle località che presentano criticità dovranno adottare misure per ridurre le concentrazioni.
Attenzione pero, il valore di 100 ng/l è un limite di qualità, ovvero un obiettivo normativo da non superare. Non bisogna considerarlo come un valore sanitario che determina la concentrazione nell’acqua di una sostanza a partire dalla quale avrà effetti sulla salute umana.
“Stiamo lavorando per adottare limiti più stringenti anche prima delle evoluzioni attese in ambito UE, tra cui l’adozione a livello nazionale di un limite di 20 ng/l per gli PFAS più pericolosi inseriti nel parere EFSA del 2020 –spiega Luca Lucentini direttore del reparto di Igiene delle Acque Interne dell’Istituto Superiore di Sanità – ma è praticamente impossibile eliminare gli PFAS dall’ambiente, senza un controllo sulla circolazione e lo smaltimento delle sostanze. Il problema più difficile da affrontare riguarda il TFA sigla che indica l’acido trifluoroacetico. Si tratta di un prodotto di degradazione di molti PFAS e anche di diversi pesticidi. È difficile da eliminare perché è un composto a catena ultra-corta, molto solubile ed estremamente stabile. Il TFA si genera anche in seguito alla dispersione nell’ambiente di gas refrigeranti che hanno sostituito i vecchi clorofluorocarburi come il Freon.”
Il problema è complesso perché dietro la sigla PFAS si nasconde una famiglia di sostanze, i perfluoroalchilati e i polifluoroalchilati che comprende migliaia di componenti. In altre parole siamo di fronte a sostanze chimiche ormai presenti dappertutto.
L’evoluzione
Come è successo per la plastica, creata per essere un materiale resistente e indistruttibile (come diceva la pubblicità di Moplen negli anni ’60), anche gli PFAS hanno le stesse caratteristiche ma sono “invisibili”, non si vedono, non si sentono e hanno una grande solubilità in acqua, nel grassi e nell’aria. Per questo si trovano probabilmente anche in minima parte negli alimenti. Per essere ancora più chiari gli americani sostengono che un pizzico di PFAS sia presente nel sangue di tutti i cittadini che vivono nei 50 Stati. In altri termini con gli PFAS dobbiamo convivere come avviene con le polveri sottili nell’aria o le microplastiche.
Gli PFAS sono utilizzati dagli anni ’50 per le proprietà impermeabilizzanti e la resistenza al calore. Si trovano infatti nelle padelle antiaderenti in Teflon, nell’abbigliamento tecnico, negli imballaggi delle catene di fast-food e in generale degli alimenti, nelle schiume antincendio, nei farmaci e ancora in alcuni pesticidi che hanno come principi attivi proprio gli PFAS. Il problema è che la fortissima stabilità del legame carbonio-fluoro li rende molto persistenti nell’ambiente. Si accumulano da 70 anni negli ambienti naturali, senza risparmiare le acque superficiali (fiumi, laghi…) e quelle di falda. Per questo non sorprende trovarli nell’acqua potabile.
Come proteggersi
La domanda legittima è: come proteggersi? In bibliografia si trovano studi secondo cui la filtrazione mediante carbone attivo riduce le concentrazioni di PFAS nell’acqua potabile, con tassi di rimozione che vanno dal 50% al 90% in relazione al tipo di trattamento. Per questo motivo i filtri a carbone attivo sono utilizzati dai gestori delle reti. Un altro sistema decisamente più oneroso a livello economico è l’impianto a osmosi inversa che però demineralizza l’acqua rendendola quasi distillata. Si usa a livello domestico e richiede un investimento notevole. Va però precisato che gli attuali livelli di PFAS nella quasi totalità dei comuni italiani non rappresenta ancora un problema di salute pubblica.
Il problema si pone in egual misura per le acque minerali in bottiglia. Uno studio dei ricercatori dell’Università di Birmingham, della Southern University of Science and Technology, Shenzhen e dell’Università di Hainan, Haikou pubblicato su ACS Environmental Science & Technology – Water., sostiene che le acque minerali presentano analoghi problemi a quelli della rete. D’altra parte non ci sono norme e limiti da rispettare per le minerali. Per l’acqua imbottigliata la ricerca di PFAS non è obbligatoria e quindi nelle analisi dei composti riportate sull’etichetta non c’è traccia.
Per chi avesse dubbi sull’acqua che sgorga dal proprio rubinetto, la prima cosa da fare è rivolgersi al gestore della rete idrica della propria città, chiedendo i dati sulla presenza di Pfas. Altroconsumo, offre ai soci un servizio di analisi dei PFAS presenti nell’acqua di casa, al costo di circa 100 euro (escluso le spese di spedizione).
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24