Ogni anno i pescherecci disperdono in mare quantità impressionanti di attrezzature chiamate genericamente “ghost gear”, cioè equipaggiamento fantasma: reti, lenze, ami, cime, contenitori di ogni forma e materiale, trappole e strumentazioni per la pesca di vario tipo. Questi oggetti restano in acqua per anni, e hanno effetti devastanti sulla fauna, che vi resta impigliata o intrappolata, perché i rifiuti continuano a fare ciò per cui sono stati progettati anche una volta abbandonati in mare.
Finora, tuttavia, non si aveva un’idea precisa della loro quantità globale. Per questo i ricercatori dell’Università della Tasmania hanno organizzato una rilevazione sul campo, coinvolgendo direttamente le autorità che regolano la pesca. Grazie a questa investitura ufficiale, hanno potuto raccogliere i primi dati, e quantificare l’abbandono e la perdita di strumenti, dimostrando che, nelle acque locali, la situazione è anche peggiore del previsto.
Cinque le tipologie principali di rifiuti, tra le quali le reti a strascico, che drenano le capesante e pesci come le passere di mare; le lunghe file di ami che si utilizzano per catturare tonni, merluzzi e altri pesci di grandi dimensioni e le nasse.
Quindi il team ha esteso lo studio a sette paesi che pescano intensamente con questo tipo di strumenti, inviando decine di osservatori direttamente sui pescherecci, e intervistando oltre 450 responsabili delle flotte di quei paesi, per capire quali fossero le abitudini più radicate. L’indagine non è stata affatto semplice, perché è stato necessario individuare persone che rappresentassero le comunità dei pescatori che parlassero inglese e, soprattutto, che fossero disposte a parlare. Ma alla fine ce l’hanno fatta, e hanno anche effettuato alcuni riscontri, quando possibile: ogni volta che erano disponibili dati ufficiali, hanno confrontato le cifre con quelle riportare dai lavoratori, e hanno trovato una sostanziale convergenza.
Come riferito su Science Advances, in media ogni anno ciascun peschereccio abbandona in mare circa il 2% delle attrezzature, una quantità di materiali enorme, calcolata tenendo conto del numero di uscite medie di ogni barca che utilizza i materiali più comunemente rilasciati in mare, delle dimensioni medie di quelle barche e del loro numero globale. È così emerso che nel mondo restano in mare poco meno di 3.000 km quadrati di reti, 75.000 km2 di ciancioli (enormi reti rettangolari alte fino a 120 metri, e lunghe non meno di 800 metri), 218 km2 di reti a strascico, 739.000 km di palamiti, 25 milioni di nasse e tonnare, e ben 13 miliardi di ami: solo le trappole, se fossero distese sulla terraferma, potrebbero ricoprire una superficie pari a quella dell’intera Scozia, mentre le reti, che distese occuperebbero per 16 milioni di chilometri, potrebbero fare il giro della Terra all’equatore almeno 400 volte.
In questa fase non è stato possibile stimare i danni che questi rifiuti arrecano ai pesci, ma di certo, secondo gli autori, il fatto che squali e mante nell’ultimo mezzo secolo siano diminuiti di più del 70% dipende anche dalla costante presenza di lenze con ami plurimi abbandonate. Altre vittime eccellenti sono le balene, anch’esse minacciate, e per proteggere le quali oggi esistono cime e cordami che si spezzano quando una di esse, rimasta intrappolata, cerca di liberarsi. Anche le reti possono diventare molto pericolose, anche se è raro che un peschereccio ne perda una intera. Tuttavia, quando succede, la rete dispersa può uccidere anche i grandi mammiferi. Quando invece se ne rilasciano solo parti, esse possono mettere a rischio anche gli uccelli e animali più piccoli, che possono restare impigliati.
Un’altra voce importante poi è quella delle nasse per i granchi, perché in esse possono restare intrappolate creature più piccole come i polpi e le aragoste: le specie ritrovate nelle nasse abbandonate sono diverse decine.
La buona notizia è che in molte zone del mondo sono attivi gruppi di volontari che cercano di ripulire i fondali e le acque, ma di certo questo non può bastare. Vanno innanzitutto sensibilizzati i pescatori, e poi vanno introdotte le attrezzature più innovative e rispettose del mare e dei suoi abitanti, in modo che, anche qualora vi siano perdite, arrechino meno danni. Infine, vanno limitati gli accessi dei pescherecci con le attrezzature peggiori per esempio in alcuni areali di riproduzione, per preservare le nuove generazioni e, indirettamente, spingere i pescatori a comportamenti più consapevoli e responsabili.
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Giornalista scientifica
E pensare che sarebbe sufficiente smettere di mangiare pesce per risolvere anche questo problema.
In un Mondo ideale sicuramente……
“La buona notizia è che in molte zone del mondo sono attivi gruppi di volontari che cercano di ripulire i fondali e le acque, ma di certo questo non può bastare.” Infatti, affidarsi esclusivamente all’encomiabile attività volontaristica è pura utopia.
Mi stupisce vedere che i pescatori – che spesso si ritengono danneggiati dalla dimunuzione del pescato e dalla presenza di rifiuti in mare – siano responsabili di questo problema. Chissà se i loro organismi di rappresentanza stanno muovendo dei passi per affrontare questa cattiva pratica …