Una percentuale che varia tra il 90 e il 99% della deforestazione delle zone tropicali è attribuibile, direttamente o indirettamente, all’agricoltura, in modi non del tutto scontati. Il dato, molto più alto di quello comunemente considerato valido finora (l’80% circa), riassume i risultati di un lavoro che ha coinvolto alcuni dei gruppi di ricerca in materia più qualificati al mondo, uniti nello sforzo di fornire numeri omogenei e il più possibile certi.
Lo studio, pubblicato su Science, ha fatto emergere un dato inatteso: solo (si fa per dire) una percentuale compresa tra metà e due terzi (45-65%) della deforestazione è attribuibile a effettive pratiche agricole come la messa in coltura di nuove piantagioni. Ciò che resta è costituito da progetti agricoli mai realizzati o non portati a termine perché mal concepiti. Oppure da programmi per i quali è stata chiesta l’autorizzazione a disboscare per ottenere fondi che, però, non sono mai stati impiegati per l’agricoltura, o sono stati utilizzati per tutt’altro, non di rado per commerci illegali. Inoltre, alcune aree disboscate sono frutto di fuochi agricoli che si sono estesi nelle foreste adiacenti ad aree disboscate innescando incendi.
Le cifre sono state ottenute analizzando i più aggiornati e affidabili database del settore, e hanno portato a restringere l’intervallo delle stime finora considerate valide. Considerando il periodo compreso tra il 2011 e il 2015, gli studi precedenti calcolavano una deforestazione compresa tra 4,3 e 9,6 milioni di ettari all’anno, mentre le stime contenute nel nuovo rapporto parlano, per lo stesso periodo, di un intervallo che oscilla tra 6,4 e 8,8 milioni di ettari all’anno. Numeri comunque spaventosi, che raccontano meglio di molte parole il fallimento delle politiche di conservazione ma che, essendo più precisi dei precedenti, possono almeno essere di aiuto per formulare le strategie per i prossimi anni, proprio a partire da quella che gli autori chiamano ‘deforestazione per nulla’, totalmente immotivata e da combattere con ogni mezzo.
Ma il rapporto va anche più a fondo, e individua le pratiche agricole maggiormente associate alla deforestazione: l’espansione dei pascoli è di gran lunga la causa principale di deforestazione, essendo responsabile di circa la metà degli ettari persi. Le coltivazioni di palma da olio e soia, insieme, rappresentano almeno un quinto del fenomeno, e altre sei colture – gomma, cacao, caffè, riso, mais e manioca – probabilmente costituiscono la maggior parte della rimanente quota di deforestazione, sia pure con grandi variazioni regionali e con cifre ancora incerte.
Se si vuole evitare che il fenomeno continui a crescere, sottolineano gli autori, le politiche nazionali e sovranazionali dovrebbero tenere conto di tutto ciò che è collegato anche indirettamente alla deforestazione, varando norme per penalizzare i prodotti da essa derivati e premiando le pratiche conservative e rigenerative.
Affinché i provvedimenti abbiano successo, tuttavia, più che pensare ai singoli prodotti, sui quali è difficile effettuare verifiche, sarebbe utile intervenire sulle filiere, per favorire la nascita e il sostentamento di partnership virtuose tra i produttori, consumatori e governi. A tale scopo ci vorrebbero misure forti, basate su incentivi che rendano l’agricoltura sostenibile economicamente vantaggiosa, oltre che supportare i piccoli agricoltori più vulnerabili e disincentivare l’ulteriore distruzione della vegetazione autoctona. Inoltre, la programmazione dovrebbe prevedere una maggiore attenzione ai mercati interni che, al contrario di quanto si pensa, per molte materie prime costituiscono le principali spinte alla domanda: accade, per esempio, in diversi paesi, per la carne bovina.
Infine, lo studio sottolinea i tre punti deboli a causa dei quali è ancora oggi difficile motivare scientificamente eventuali decisioni. Il primo è la carenza di dati globali: senza numeri coerenti a livello mondiale, non è possibile avere certezze sulle tendenze generali del fenomeno della deforestazione. Il secondo è che, fatta eccezione per la palma da olio e la soia, mancano dati sui prodotti specifici, per capire quali siano i peggiori. In particolare sono carenti le rilevazioni relative ai pascoli, pur essendo proprio questa la causa principali di deforestazione. Il terzo punto debole è geografico, perché si sa relativamente poco delle foreste tropicali secche e delle foreste in Africa.
Numeri più affidabili potrebbero essere tenuti in considerazione nelle discussioni che si stanno facendo in ambito europeo, statunitense e britannico per giungere a filiere che possano essere certificate come non responsabili di deforestazione e a prodotti definiti ‘deforestation free’. Servirebbero anche norme per motivare la concessione o il divieto di nuove autorizzazioni per ulteriori deforestazioni, così come progetti di sviluppo razionali delle aree rurali più povere.
La recente Dichiarazione di Glasgow ha ribadito l’importanza di affrontare insieme le crisi del clima e della perdita di biodiversità, e ha stabilito un nuovi obiettivi per fermare la deforestazione e promuovere un’agricoltura sostenibile. È fondamentale che questa dichiarazione venga tradotta in realtà.
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Giornalista scientifica
Non mi è chiaro :
Lo studio, pubblicato su Science, ha fatto emergere un dato inatteso: solo (si fa per dire) una percentuale compresa tra metà e due terzi (45-65%) della deforestazione è attribuibile a effettive pratiche agricole come la messa in coltura di nuove piantagioni.
Poi dice : l’espansione dei pascoli è di gran lunga la causa principale di deforestazione, essendo responsabile di circa la metà degli ettari persi.
se è al 50% come si può dire che è la causa principale, sepoi la messa a cultura arriva fino al 75% ?
Temo che la lobby veg colpisca ancora.
Si legge che tra “le pratiche agricole maggiormente associate alla deforestazione: l’espansione dei pascoli è di gran lunga la causa principale di deforestazione, essendo responsabile di circa la metà degli ettari persi”