Nel nord est della Cina cresce un grano che all’apparenza è come tutti gli altri, ma nella sostanza è davvero particolare. Si chiama Luyuan 502 ed è la seconda varietà – per quantità – coltivata nel paese. La sua rapida diffusione si deve alle sue caratteristiche, ottimizzate nello spazio, a 340 km dalla Terra, nell’ambito di esperimenti che, sfruttando la microgravità e l’assenza del campo magnetico terrestre (e quindi esponendo semi e germoplasmi ai raggi cosmici e solari), hanno permesso di generare di un gran numero di mutazioni spontanee del DNA, fino a ottenere specie più resistenti alle condizioni climatiche sfavorevoli e anche a molte malattie.
Il fenomeno delle mutazioni indotte dai raggi cosmici e solari non schermati ha un nome specifico, mutagenesi spaziale, ed è al centro di molti studi sulle stazioni spaziali orbitanti e su alcuni satelliti; in alcuni casi le mutazioni uccidono la pianta, ma in altri le consentono di acquisire caratteristiche come l’aumento della resa e la maggiore resistenza, cioè doti quasi ideali, in tempi di siccità e di cambiamenti climatici.
Di questa nuova frontiera della ricerca sul cibo del futuro parla la BBC in un lungo articolo, nel quale è stato intervistato il direttore del programma di mutagenesi spaziale cinese, Liu Luxiang, del Centro nazionale di mutagenesi spaziale per il miglioramento delle colture dell’Istituto di agraria dell’Accademia cinese di scienze agrarie di Pechino. Il grano Luyuan 502 ha una resa superiore dell’11% rispetto alla varietà più comune in Cina, resiste meglio a siccità e malattie, ed è anche molto versatile, perché cresce bene in aree del paese molto diverse tra loro per condizioni ambientali e climatiche. La Cina manda semi e piante nello spazio in media un paio di volte all’anno, in certi casi per pochi giorni, in altri anche per mesi, e sfrutta così le condizioni davvero uniche di piattaforme, stazioni e satelliti. Nella maggior parte dei casi, inoltre, i semi sono fatti germinare una volta tornati sulla Terra, dove è possibile analizzare nel dettaglio le caratteristiche delle nuove piante, e iniziare ad espanderle.
La storia di successo del Luyuan 502 non è un caso isolato: a partire dai primi esperimenti, condotti dalla Cina nel 1987 (i primi test in assoluto, in realtà, sono stati effettuati negli anni Settanta, nell’ambito di una collaborazione tra URSS e Stati Uniti, su cellule di carota inviate sul satellite sovietico Kosmos 782), il programma cinese ha prodotto oltre 200 varietà spaziali di riso, mais, soia, sesamo, cotone, anguria, peperoni, pomodori e altri vegetali. Il primo è stato reso noto nel 1990: era un peperone chiamato Yujiao 1, anch’esso più resistente e, a parità di condizioni, capace di dare frutti più grandi rispetto alla varietà terrestre. Da allora ha gradualmente aumentato investimenti e missioni fino a inviare, nel 2006, addirittura 250 kg di semi e microrganismi di 152 specie sul satellite orbitante Shijian 8, mentre nel maggio di quest’anno sono tornati sulla Terra, dopo sei mesi passati sulla stazione Tianhe, 12mila semi e funghi. E non è tutto: nel 2020 gli scienziati cinesi hanno inviato un campione di sementi di riso anche in orbita intorno Luna, con la sonda della missione Chang’e-5, che ha fatto atterrare un lander e passeggiare un rover sul suolo lunare. Di ritorno sulla Terra, quei semi hanno germogliato e prodotto regolarmente il riso.
Negli ultimi anni anche altri paesi sembrano essersi accorti delle potenzialità della mutagenesi spaziale, rispetto a quella nucleare, ottenuta sulla Terra bombardando i semi con i raggi X, UV o gamma. Nel 2020, per esempio, l’americana NanoRacks, in partnership con gli Emirati Arabi Uniti, ha annunciato l’intenzione di creare miniserre in orbita, con lo scopo di sviluppare nuove varietà. Lo stesso ha fatto un gruppo di ricercatori europei, che ha spedito dei semi di lattuga sulla Stazione spaziale internazionale, scoprendo poi che dopo il ‘trattamento’, una volta rientrati a Terra e seminati, le piantine crescevano più lentamente. Al contrario, quella che cresce sull’Iss dal 2015, viene mangiata dagli astronauti, che ne hanno così dimostrato la sicurezza.
I motivi dell’interesse, oltre alla necessità di avere verdure fresche per astronauti e futuri coloni spaziali, sono chiari: secondo Shoba Sivasankar, capo del gruppo congiunto dell’AIEA (dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica) e della FAO Plant Breeding and Genetics, questi test permettono di avere nuove varietà utili in un tempo che è circa la metà di quello necessario con le tecniche terrestri. Il mondo, secondo Liu, dovrà aumentare la produzione di cereali del 70% entro il 2050, se vuole sfamare i due miliardi di persone in più che popoleranno la Terra. Lo spazio può fornire soluzioni.
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Giornalista scientifica