Anche le bioplastiche, se disperse nell’ambiente anziché essere conferite nel compost, hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non biodegradabili. È questa la conclusione a cui è giunto lo studio, pubblicato su Polymers, condotto dal Consiglio nazionale delle ricerche e dal Centro nautico e sommozzatori La Spezia, che ha messo a confronto i due polimeri più impiegati negli oggetti di plastica, HDPE (polietilene ad alta densità) e PP (polipropilene), con due polimeri di plastica biodegradabile, PLA (acido polilattico) e PBAT (polibutirrato-adipato-tereftalato), verificando il grado di degradazione in acqua di mare e sulla sabbia. Le sigle HPDE e PP indicano plastiche tradizionali non biodegradabili, principalmente a base di combustibili fossili mentre PLA e PBAT identificano bioplastiche biodegradabili (a base biologica nel primo caso e a base di combustibili fossili nel caso del PBAT (anche le plastiche biodegradabili possono infatti derivare da combustibili fossili.).
Normalmente il PLA è ottenuto a partire dall’amido di mais o dalla canna da zucchero mediante sintesi chimica o fermentazione e i suoi utilizzi spaziano dal packaging alimentare, ai sacchetti biodegradabili, fino alle stoviglie monouso. Il PBAT invece è un polimero biodegradabile, con proprietà meccaniche simili a quelle di polietilene a bassa densità (LDPE), usato nel campo del imballaggio alimentare e per film agricoli. L’esperimento, il primo di questo tipo, ha utilizzato la piattaforma di monitoraggio ambientale ‘Stazione Costiera del Lab Mare’ posta a 10 metri di profondità nella Baia di Santa Teresa nel Golfo della Spezia, alla quale collaborano anche l’Istituto Idrografico della Marina e l’Enea. Qui sono state alloggiate particolari “gabbie” progettate per contenere i campioni di plastica. È stata inoltre predisposta sulla spiaggia una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici, per simulare la superficie terrestre.
Dopo sei mesi né i polimeri tradizionali né quelli a base bio hanno mostrato una degradazione “‘significativa’ e, come si legge nel comunicato stampa rilasciato dal Cnr, “nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale”. Secondo Marina Locritani, coordinatrice dell’indagine: “Lo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”. Come segnalato in un precedente articolo, l’Italia ha scelto di recepire la Direttiva Europea sulla plastica monouso “deviando” rispetto al testo originale e consentendo l’uso, ma solo in situazioni specifiche, di articoli in plastica compostabile realizzati con almeno il 40% di materia prima rinnovabile (60% dal primo gennaio 2024).
Questa comunicazione del CNR, non ha lasciato indifferente il settore Assobioplastiche (Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili) che ha immediatamente replicato contestando non tanto i dati, ma il “significato strumentale dell’operazione” che “getta un’ombra sull’intero settore”. Secondo Assobioplastiche sarebbero tre gli aspetti da evidenziare. Il primo riguarda i risultati dello studio “diffusi prematuramente […] , dopo soli sei mesi, in un esperimento che dura tre anni”. Secondo l’associazione non sarebbe casuale la pubblicazione “proprio nelle ore in cui si sta discutendo di una possibile via italiana al recepimento della Direttiva europea sulle plastiche monouso.” “Come è noto, – continua il comunicato di Assobioplastiche – vi sono tesi diverse e schieramenti opposti. Da una parte c’è chi ritiene che le bioplastiche, fermo restando che la riutilizzabilità resta sempre l’opzione preferibile, possano costituire un possibile piano B considerate le specificità del nostro Paese. Dall’altra parte vi è, invece, chi le critica a prescindere”.
La seconda singolarità riguarderebbe i tempi di degradazione delle bioplastiche che non sono stati misurati, pur essendo questo lo scopo dello studio. “L’articolo non risponde infatti alla domanda ‘Quali tempi di degradazione hanno le bioplastiche rispetto a quelle convenzionali?’”. Secondo l’associazione “nella prova manca un elemento fondamentale per contestualizzare i risultati e dare un senso al termine ‘significativo’ riferito a degradazione, ‘lungo’ riferito a tempo e via dicendo.” Da ultimo il tema dei “rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento” citati nel comunicato stampa del Cnr, ma che lo studio di partenza, pubblicato su Polymers, non affronta in nessun modo. Una battaglia a suon di comunicati stampa che non piace a nessuno, come sostiene la stessa associazione nella premessa: “Spiace dover dialogare a mezzo di comunicati stampa, laddove sarebbe preferibile rimanere nell’ambito della discussione scientifica, che Assobioplastiche ritiene vitale e stimolante e spera poter continuare nelle sedi opportune con i ricercatori interessati al tema della biodegradazione delle bioplastiche”.
Secondo il Cnr, altri esperimenti, già programmati, monitoreranno i processi di degradazione in condizioni più estreme, grazie all’installazione di ulteriori gabbie contenenti plastiche e bioplastiche nella ‘Stazione profonda del Lab Mare’ poste a circa 400 metri di profondità, sempre in acque liguri. Questi nuovi studi riusciranno a mettere d’accordo tutti? L’auspicio è che si riesca comunque a trovare una linea comune su cui dialogare, mettendo al centro gli interessi dei consumatori e dell’ambiente.
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ma va??????
E’ così difficile eliminare il monouso che si getta.
Grazie per l’articolo.
Non sono all’altezza per parlare di tecnopolimeri, inoltre la ricerca e la diffusione capillare di questi prodotti mi fa pensare che l’Era della plastica da idrocarburi o da altre fonti non finirà presto.
Però da praticante di compostaggio e contemporaneamente da curioso di stampanti 3D e filamenti/stampa ho letto questo link di Ottobre 2021 da cui ho ricavato qualche informazioni sul PLA e su alcuni aspetti del problema in oggetto………
https://www.3dnatives.com/it/pla-biodegradabile-011020219/#!
—————Un sondaggio condotto dall’associazione per la protezione ambientale tedesca, German Environmental Aid (DUH), che conta quasi 1.000 impianti tedeschi di compostaggio per i rifiuti organici e i rifiuti biologici ha dimostrato che il 95% di questi impianti di compostaggio non sono in grado di compostare le bioplastiche secondo gli standard. Inoltre, l’80% di questi impianti di compostaggio che lavorano i rifiuti organici e biologici tedeschi ritengono le bioplastiche una —sostanza interferente—. Questo dimostra che, sebbene il PLA in teoria possa essere biologicamente degradato, in pratica manca l’infrastruttura corrispondente per la degradazione del PLA e delle altre bioplastiche.—————-
————Tecnicamente, il PLA è riciclabile purché la raccolta coinvolga unicamente il PLA, senza alcuna contaminazione derivante da altre plastiche”.——————
—————-“Studi scientifici hanno dimostrato che il PLA emette una quantità significativa di nanoparticelle che possono attraversare la barriera capillare alveolare e contaminare l’intero corpo tramite il sangue”. Questa barriera o membrana è la parte del polmone attraverso la quale i gas scambiano funzioni, ossia l’assorbimento di ossigeno e l’emissione di diossido di carbonio.
“Queste particelle sono principalmente di lattide, ma altre particelle tossiche possono essere rilasciate a loro volta in quanto i filamenti utilizzati sono raramente in PLA al 100% e contengono fino al 40% di additivi. —————–
La comunicazione dei risultati a sei mesi è importante per definizione regolamentare, allo scadere di quel termine il prodotto dovrebbe essere molto più avanti nella scomposizione se però vengono applicate precise condizioni pratiche difficili da mettere in opera senza contare che il rifiuto prima deve essere catturato e poi trattato per ottenere i benefici dichiarati.
Nulla che gli esperti nostrani non sappiano, facciamo pure dialogare industria e interessi dei consumatori con al centro la sicurezza e l’ambiente, ma in piena luce e senza nasconderci limiti e contraddizioni.
In effetti pubblicare da parte dal CNR solo dopo 6 mesi dei risultati preliminari di uno studio che ne dura 3 anni, è decisamente prematuro. La curva di degradazione potrebbe non essere lineare e portare a una grossa degradazione dopo 3 anni. Questo dei ricercatori lo devono sapere e quindi perché hanno agito così?
E sì ci andava uno studio.
Considerando che sono biodegradabili/ compostabili a determinate condizioni replicabili solo in modo industriale e certificati come tali, ci andava uno studio.
Il concetto è quello che per essere biodegradabile e compostabile, il materiale utilizzato debba tornare nel ciclo naturale degli elementi in tempi ragionevolmente brevi.
Secondo la normativa la sostanza deve decomporsi almeno del 90% in meno di —-6 mesi—– per essere biodegradabile.
Per la certificazione compostabile, il materiale deve disintegrarsi in meno di 3 mesi e non essere più visibile, il tutto deve avvenire in ambiente controllato.
La norma EN 13432 definisce i requisiti minimi per il confezionamento per essere processato dal compostaggio industriale.
Requisiti simili sono in vigore nella norma europea EN 14995 per la plastica non per imballaggio elementi.
Questo studio certifica la distanza tra ciò che si dovrebbe fare e ciò che ogni giorno si fa, la distanza tra chi fabbrica sostanze con determinate caratteristiche e chi fa le leggi e regolamenti senza curarsi della terra che calpesta.
A cosa serve avere un procedimento di compostaggio che darebbe un risultato positivo ma poi non avere la volontà/forza economica e politica per riuscire a farlo, e non mi riferisco al compostaggio privato ma agli impianti industriali esistenti.
Se mettiamo i sacchetti compostabili nell’organico e non abbiamo gli impianti adatti facciamo un danno e prendiamo in giro i consumatori meno attenti……non riuscendo a sapere per certo cosa succede nella mia zona io li butto con dispiacere nell’indifferenziato.
Come cercavo di dire in altro commento disperso poi esiste un altro problema enorme, questi prodotti virtuosi sono quasi sempre mescolati in manufatti di uso comune con altre sostanze che non lo sono e con pericolosi additivi, quindi cosa ce ne facciamo nei campi coltivati di materiale compostato industriale inquinato?
Fra CNR e Assoqualunquecosasia mi fido certamente del primo e per nulla dei secondi.