Tra le possibili strategie in studio per ridurre il consumo di alimenti poco sani associati all’aumento di peso, c’è quella che si basa sul loro posizionamento nei punti vendita. Il primo punto è non posizionare in prossimità della casse prodotti che attraggono l’attenzione dei più piccoli ma dislocarli in scaffali lungo i corridoi meno visibili agli occhi di un osservatore medio. Ma è davvero utile? Se lo sono chiesto, su invito del Governo britannico, le ricercatrici del Dipartimento di Scienze della salute e delle cure primarie dell’Università di Oxford, che hanno effettuato un’analisi dei dati ottenuti in supermercati reali della zona di Londra nei quali erano state introdotte misure di questo tipo, messi a confronto con quelli di altri punti vendita, di dimensioni e giro d’affari paragonabili, presenti in tutto il paese.
Come illustrato su PLoS One l’esperimento è stato fatto tra febbraio e aprile 2019 (prima dei giorni di Pasqua): in quel periodo, i negozi del test hanno rimosso i dolci dalle casse e dalle posizioni più favorevoli, sostituendoli con prodotti meno calorici, hanno eliminato qualunque espositore promozionale singolo, hanno sostituito le patatine e i biscotti normali con altri a basso tenore di grassi, hanno messo ad altezza di occhio cereali più sani e con meno zuccheri di quelli più popolari, e applicato prezzi scontati su frutta e verdura insieme a etichette esplicative. In totale sono realizzati sette interventi, e i risultati sono stati valutati in due studi. In entrambi i casi, i dati di vendita su base settimanale dei tre mesi di prova sono stati messi a confronto con quelli degli stessi supermercati del periodo compreso tra novembre 2018 e gennaio 2019, e con quelli delle stesse settimane di punti vendita in cui non era stata apportata alcuna modifica nell’esposizione della merce.
Il primo studio ha avuto come oggetto i dolci stagionali ed è stato effettuato in 34 punti vendita di una sola catena della zona di Londra dove sono stati rimossi gli espositori promozionali, messi a confronto con quelli di altri 131 punti vendita della stessa proprietà, di dimensioni e giro d’affari paragonabili, presenti in tutto il paese. Il risultato è stato che, laddove i dolci sono stati spostati in posizioni meno visibili, c’è stato solo un aumento delle vendite del 5%, mentre nei punti vendita di controllo è stato del 18%. Anche raffrontando le vendite in base al peso in grammi (+12% versus +31%) o al guadagno in sterline (-3% versus +10%), la tendenza è risultata del tutto simile. In unità, in media ogni negozio del gruppo di intervento ha venduto 127 dolci in meno a settimana, pari a 21 chilogrammi. Si è vista poi una differenza statisticamente significativa nella vendita in generale (in peso) e in quella di grassi totali, e una meno netta per quanto riguarda lo zucchero e i grassi saturi. Inoltre, i dati hanno mostrato che nel tempo la divaricazione tende a diminuire, probabilmente perché i clienti apprendono i nuovi posizionamenti e tornano a cercare i dolci.
Nel secondo studio, invece, sono stati analizzati altri sei tipi di interventi sulla disponibilità, il posizionamento, le promozioni e la segnaletica dei prodotti salutari in tre catene di supermercati. Alla fine dell’esperimento, le patatine normali hanno subito un calo di vendite del 23%, mentre i biscotti del 4%, cui è corrisposto un aumento di quelli a minor tenore di grassi e zuccheri del 18%. Il cambiamento di posizione dei cereali, così come gli sconti alla frutta e verdura e l’esposizione di etichette specifiche non sembrano aver avuto effetto, mentre il ricorso a strumenti quali i personaggi Disney per la promozione sì: la frutta ha venduto addirittura il 305% in più, a conferma di quanto i bambini (e i genitori) siano influenzabili.
Anche se i risultati vanno interpretati con cautela, perché ci sono molte variabili che avrebbero potuto contribuire a condizionarli, non trattandosi di uno studio controllato, ma dell’elaborazione di situazioni reali, sono emerse alcune strategie che potrebbero avere una certa efficacia. Tuttavia – fanno notare gli autori – misure di questo tipo dovrebbero essere inserite in un programma più articolato, che preveda altri provvedimenti, tutti finalizzati a ridurre il consumo eccessivo degli alimenti ad elevato contenuto di grassi, zuccheri e sale.
Per illustrare meglio la complessità del tema, lo stesso numero della rivista ospita un editoriale firmato da Jean Adams, epidemiologa della stessa università, anche lei incaricata di fornire consulenze al Governo sui provvedimenti da introdurre per contenere l’aumento dell’obesità. Adams spiega innanzitutto che il marketing si basa su quattro fattori: posizionamento, prezzo, prodotto e promozione (le quattro P), ossia che gli acquisti sono spinti, oltre che dal tipo di merce, dal costo, dalla posizione nei supermercati (dove i consumatori britannici acquistano ormai più del 70% del cibo) e dalle promozioni, per esempio gli stand colorati dei prodotti per i bambini. Per tale motivo intervenire solo su uno degli elementi può essere utile, ma anche non sufficiente. L’esperta critica gli interventi fatti, perché sono stati introdotti tutti insieme, e non è quindi possibile avere un’idea chiara e indiscutibile dell’efficacia di ciascuno di essi. Inoltre, invita a tenere conto delle conseguenze meno scontate: per esempio, se si vieta la pubblicità televisiva dei prodotti poco salutari durante le trasmissioni per bambini, si vede sempre un aumento degli spot nei programmi per adulti e potrebbe verificarsi un incremento del marketing attraverso altri canali. Ciò che si può fare, conclude, è premere affinché le tecniche più efficaci siano forzatamente rivolte verso gli alimenti più sani: si deve cercare di spiegare e convincere, più che vietare e limitare. In ogni caso, qualunque tipo di intervento andrà verificato dopo la sua introduzione, ed eventualmente corretto.
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Giornalista scientifica