Quando si parla di canapa per uso alimentare occorre essere chiari: non c’entra nulla con il recente successo della raccolta firme online (630 mila depositate in cassazione) per il referendum sulla legalizzazione. Nelle sue numerose varietà, la cannabis sativa è una specie coltivata da millenni e le piante i cui semi sono utilizzati nel settore agroindutriale sono legali e si possono coltivare liberamente, come i cereali. La loro coltivazione è infatti possibile in base a una norma europea del 1997, regolamentata dall’Italia con una legge propria nel 2016. I semi impiegati in queste colture industriali devono essere certificati in quanto capaci di produrre piante nelle quali il principio psicoattivo della cannabis (tetraidrocannabinolo, più noto come Thc) è praticamente assente. La sua presenza deve essere infatti inferiore allo 0,2%, valore che verrà innalzato a livello agricolo Comunitario allo 0,3% dal 2023.
I semi, di per sé, non dovrebbero contenerne del tutto, ma nei preparati alimentari se ne possono riscontrare dei residui a causa del contatto accidentale con altre parti della pianta. È stato quindi necessario definire quali fossero i tenori massimi di Thc residuo ammessi negli alimenti. “Una definizione che abbiamo atteso per anni – dichiara Rachele Invernizzi, vicepresidente di Federcanapa – alla quale siamo finalmente arrivati nel gennaio 2020”. Il decreto del ministero della Salute prevede infatti, per i semi di canapa, la farina e gli integratori alimentari preparati con la canapa, il limite di due milligrammi di Thc per chilo. Nell’olio, che in quanto condimento è usato in quantità limitate, il limite sale a cinque milligrammi per chilo. “Si tratta di parametri troppo stringenti per le produzioni delle nostre filiere italiane, senza fondamenti scientifici – prosegue Rachele Invernizzi – e non allineati con gli standard europei”.
Oltre che online e nei negozi specializzati in alimentazione naturale, gli alimenti realizzati con semi di canapa sono oggi disponibili anche nei super e ipermercati generalisti. Tra i prodotti più diffusi spiccano i semi di canapa, disponibili da soli o in mix con altri semi o legumi, per arricchire insalate, muesli e macedonie o per la realizzazione di zuppe. Molto apprezzato è l’olio, impiegato anche come integratore alimentare e particolarmente diffuso nella versione biologica, in bottigliette da 250 ml, con prezzi che variano molto (da 22 a 60 €/l). I semi di canapa sono poi sempre più spesso un ingrediente in ricette di prodotti salutisti, come minestre, vellutate pronte o cracker. “Questi semi sono ricchissimi di proteine vegetali – sottolinea Invernizzi –, arrivano infatti ad averne il 30% e risultano particolarmente apprezzati da vegetariani e vegani”. I semi di canapa costituiscono infatti un alimento ad alta digeribilità dal sapore delicato, capace al contempo di fornire molti amminoacidi essenziali, soprattutto Omega 3 e 6. A questi si aggiunge un alto apporto vitaminico e di sali minerali, come potassio, calcio, ferro e magnesio.
“La coltivazione di canapa industriale, oltre che per gli alimenti viene impiegata come materiale da costruzione, combustibile, materiale tessile e in cosmetica e si estende in Europa su circa 60 mila ettari – prosegue Invernizzi –, mentre i principali produttori sono Cina e Canada, che vantano rispettivamente coltivazioni da 100 e 80 mila ettari. Come Federcanapa, associazione degli operatori e delle filiere agricole del settore, raccomandiamo però il consumo delle produzioni nazionali, regionali e locali. Il seme, infatti, è un prodotto delicatissimo, che va lavorato entro quattro ore dalla raccolta, mentre la spremitura dell’olio va fatta a freddo, con temperature inferiori ai 30 gradi, per garantire il mantenimento di tutte le sue proprietà organolettiche. Se si desidera avere la garanzia di consumare un alimento genuino e ricco di proprietà benefiche è quindi importante scegliere produzioni italiane o almeno europee e consumare l’olio a crudo. Nel nostro Paese un ulteriore sviluppo della filiera è tuttora rallentato dalla carenza di impianti di trasformazione a servizio dei produttori agricoli e da leggi inutilmente e tristemente troppo stringenti”.
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Di studi che dimostrino le peculiarità della pianta della canapa ce ne sono a bizzeffe: la pianta non ha pretese colturali particolari ed inoltre migliora la struttra del terreno nel quale è coltivata; dal fusto si ricavano fibre di ottima qualità e capaci di essere assemblate in filati di una infinità di spessori, da sottilissimi a molto grandi con i qualli si possono fare svariati tessuti; i semi sono di una ricchezza alimentare molto elevata con ricchi contenuti di proteine, grassi e carboidrati.
Tuttavia c’è una forte ostativa trasversale verso questa pianta, sia da parte della politica sia dell’industria cui questa coltivazione rappresenterebbe una concorrenza.
Quando la smetterete di citare i super food (pur con tutte le virgolette che volete) sarà sempre tardi, i super food non esistono, come non esistono Superman o Hulk… ogni cibo ha le sue peculiarità e contiene sostanze utili, l’unico “super” accettabile è la dieta mediterranea, una dieta equlibrata che però non ha nessun bisogno di essere chiamata super perché basta e avanza il suo nome.
Quanto alle proprietà della canapa sono ben note, e come fa rilevare Roberto avremmo tranquillamente continuato a coltivarla perché rustica e di poche pretese e con grande ritorno economico, ma le industrie che dovevano sfondare con i nuovi filati sintetici ricavati dal petrolio hanno cavalcato l’ignoranza dei politici giocando sulla confusione tra cannabis indica e cannabis sativa, accomunandole tutte in “demoniaca droga da sopprimere”.
Solo ora si torna a parlarne, ma c’è sempre chi gioca sulla confusione per continuare ad ostacolarla, come dimostra il fatto che dopo l’autorizzazione europea del ’97 ci sono voluti QUASI VENT’ANNI perché il legislatore italiano a malincuore si adeguasse, pur ponendo tutti i cervellotici ostacoli possibili senza violare apertamente le disposizioni europee.