Oggi gli scaffali dei supermercati sono pieni di ragù: di manzo, chianina, pollo, cervo, cinghiale, lepre, anatra, pesce spada, alla contadina, alla bolognese, classico e tanti altri. Tutti sanno, o almeno credono di sapere cos’è il ragù, in modo particolare quello della propria terra o Paese, e soprattutto della mamma. Come dicono i dizionari – ma dobbiamo fidarci? – “ragù” è un termine utilizzato per indicare un trito grossolano cotto per molte ore a fuoco basso e composto di numerosi ingredienti che variano a seconda delle regioni. Spesso a base di carne di animali diversi, ma in cucina vi sono anche ragù di pesce, di spigola, di cernia, o altri pesci, e ora in un clima vegetariano anche di soia o di tofu. Molti sono gli usi dei ragù, di frequente utilizzati per condire diversi tipi di paste (tagliatelle, lasagne ecc.) anche ripiene (tortelli) e sformati (bomba di riso ecc.). Per estensione il termine è spesso utilizzato impropriamente come sinonimo generico di sugo, che un tempo era anche detto culì (in francese coulis) perché ottenuto filtrando attraverso una tela o salvietta, un setaccio o un colino. Da qui la denominazione di “colato” o culì.
Fondamentalmente i tipi di ragù sono due: uno a base di carne tritata e l’altro con un pezzo di carne intera cotta molto lentamente. Al primo genere di ragù (carne tritata) appartengono quelli emiliani (bolognese) e altri come il sardo o il barese. Al secondo tipo di ragù (carne intera) si associano quelli di alcune regioni meridionali e di Vincenzo Agnoletti (1832), denominato salpiccone. Esistono preparazioni dette “al ragù” (involti grossi o piccoli di carne al ragù, braciole al ragù ecc.) realizzate con una fetta di carne disposta attorno ad elementi aromatici, che appartengono di solito alla tradizione delle regioni meridionali. Tipici della cucina italiana sono almeno tre ragù: il bolognese, il napoletano e il ragù potentino quest’ultimo noto come ndrupp’c (in italiano intoppo o inciampo) della città di Potenza, capoluogo della Basilicata. In ogni caso di tutti i tipi di ragù esistono diverse varianti in ogni area e soprattutto oggi i ragù sono tornati di moda perché ottimamente preparati da diverse industrie italiane.
L’etimologia della parola ragù ha le sue basi nel francese ragoût, sostantivo derivato da ragoûter che significa risvegliare l’appetito, perché originariamente indicava dei piatti di carne stufata con abbondante condimento. Solo in seguito il termine fu usato per accompagnare altre pietanze, in Italia principalmente la pasta e il riso. Il dizionario etimologico di Cortellazzo-Zolli fa risalire l’origine di ragoût al secolo XVI dal verbo ragoûter (1360), risvegliare (ra) il gusto (goût). Durante il periodo fascista il regime volle italianizzare il termine, visto come non del tutto italiano e quindi non consono al vocabolario fascista, trasformandolo in ragutto ma senza successo, riuscendo solo a produrre la parola ragù ancor oggi in uso.
Il termine ragù è di uso relativamente antico e si trova quasi due secoli fa nel Manuale del Cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno di Vincenzo Agnoletti – Pesaro, Tipografia Nobili, 1832. Nel Tomo I, alle pagine 9-13 dedicate a ragù e salpicconi, Vincenzo Agnoletti, che a Parma è al servizio di Maria Luigia, avverte che “questo nome francese di ragù, altro non significa che della carne o erbe cotte con sostanza tanto al rosso che al bianco, e questi servono o per magiari per un piatto, ovvero per guarnizione e ripieno di altre vivande. I ragù crudi poi servono sempre per ripieno”. Scorrendo i tre tomi dell’opera di Agnoletti, il ragù si trova in molte preparazioni e tra queste anche nei timballi di riso, oggi noti come bombe di riso, e in alcune ricette di maccaroni, ma non in quelli alla napoletana.
Sull’origine del termine ragù vi è un sostanziale accordo che come si è detto deriva dal francese ragoût, ma qui iniziano i dubbi se non le discordie. Nessun problema per goût, gusto – ma quale gusto? – considerando che peu ragoûtant significa poco appetitoso e anche disgustante qui può inserirsi la leggenda metropolitana secondo la quale il ragù sarebbe il rat au goût de boeuf. Secondo questa leggenda che va contro ogni conoscenza storica di un termine noto e usato fin dal milletrecento, durante l’assedio di Parigi del 1870 o durante l’insurrezione popolare del 1871 che costringe il governo Thiers a riparare a Versailles (una duplice origine è già molto problematica), finiti pollame, conigli, ovini, i pochi manzi portati in città, tutti i cavalli e gli animali dello zoo, cacciati e mangiati cani e gatti, non rimangono che i topi e i grandi ratti. Da qui il rat au goût de boeuf, il ratto cucinato come se fosse manzo. Nient’altro che una leggenda metropolitana, che per un altro verso ebbe un risvolto positivo, perché dopo il 1871 in Italia si diffuse l’uso di mangiare il cavallo su quanto avvenuto – questo sì vero – a Parigi durante l’assedio prussiano e i moti insurrezionali della Comune del 1871.
Giovanni Ballarini
© Riproduzione riservata
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora