La vicenda del vino senza alcol allungato con l’acqua è una delle fake news che è circolata su molti media. Vi proponiamo questo articolo tratto dal sito Millevigne.it, firmato da Alessandra Biondi Bartolini che fa chiarezza sulla vicenda.
Leggendo i titoli dei giornali italiani nei giorni scorsi non può essere sfuggita la notizia della volontà – in alcuni casi riportata quasi come un’imposizione – della Comunità Europea di autorizzare l’aggiunta di acqua e la dealcolazione parziale e totale dei vini. Ma le cose non stanno esattamente così.
Gli articoli che sono rimbalzati sulle pagine delle testate generaliste così come della stampa specializzata spesso però non chiariscono né il contesto né l’oggetto della questione, anzi confondono i diversi piani dei quali si sta discutendo a Bruxelles. Unica fonte che in pochi hanno verificato o approfondito, un comunicato stampa di Coldiretti dai toni allarmistici e ricco di dichiarazioni che riportano parole come “inganno” o “trucco di cantina”; una decisa presa di posizione basata unicamente su un’indiscrezione relativa a un documento di lavoro interno della Presidenza del Consiglio EU contenente una serie di proposte di modifica a un regolamento ancora in discussione. Un passaggio interlocutorio che sta avvenendo nell’ambito della discussione per la PAC che entrerà in vigore a partire dal 2023.
La notizia quindi è che non c’è (ancora) una notizia: si parla di pratiche già esistenti che richiedevano di essere riviste e della definizione di nuovi prodotti che attualmente navigano in un vuoto legislativo.
La vera notizia in realtà è l’ennesimo caso di cattiva informazione dei media italiani, il tentativo di utilizzare una serie di parole chiave a fini strumentali per suscitare indignazione, l’assenza di senso critico e l’incapacità di analizzare l’imparzialità delle fonti. La tutela del Made in Italy, gli interessi dei produttori e dei consumatori, la possibilità di aprire nuovi mercati o di avere a disposizione strumenti per risolvere dei problemi reali, non sono al centro di questa vicenda fatta solo di retorica. Tanto che a breve giro alcune delle Associazioni di settore, come Federvini e UIV, hanno ridimensionato la questione pronunciandosi in modo prudente, pur sottolineando il loro ruolo di presidio del settore alle decisioni che in sede europea si stanno prendendo.
In questa sede e nelle righe che seguiranno è proprio dai problemi reali che partiremo perché è soltanto sui fatti che produttori e consumatori saranno in grado di fare le proprie scelte, tenendo conto che il negoziato è ancora in corso, che l’Italia sta partecipando e che per il momento è difficile dare dei pareri su proposte di modifiche delle quali non si conosce né il pregresso né l’esito.
L’alcol da solo non fa la qualità: esattamente come avviene per quelli con gradazioni eccessivamente basse i vini con contenuti alcolici troppo elevati risultano squilibrati, poco accettabili e scarsamente rispondenti alle cornici che ci siamo dati per definire la tipicità delle nostre denominazioni. Oggi il problema è sempre più pressante e non è difficile avere uve con concentrazioni in zuccheri che portano a vini con 16 o 17 gradi alcolici. Ma se ovviamente le misure di adattamento ai cambiamenti climatici dovranno essere individuate in un futuro vicinissimo nella gestione del vigneto e nelle scelte agronomiche e genetiche, che cosa possono fare in cantina fin da oggi i produttori con uve che ogni anno sono sempre più zuccherine e con vini sempre più alcolici? L’introduzione e l’autorizzazione tra le pratiche enologiche delle tecniche di dealcolazione dei vini è avvenuta proprio con questo scopo, quello di dare ai produttori uno strumento per gestire in modo controllato il problema. Ma non parliamo di un provvedimento recente: la dealcolazione, eseguita con le tecniche e nei modi e limiti consentiti di una riduzione massima del 20% del contenuto alcolico di partenza, descritti dall’OIV per i vini generici, è stata introdotta a livello europeo nel 2009 (con il Reg 606/2009 e poi confermata con il Reg 1308/2013). È un problema tecnologico (perché le fermentazioni non sono facilmente gestibili) ed è un problema di qualità, dal quale non sono esenti né i produttori italiani né quelli dei vini a denominazione di origine. E di questo infatti stanno discutendo nelle sedi europee.
Le tecniche di dealcolazione dei vini permettono poi anche di ottenere prodotti senz’alcol o con basso contenuto alcolico, che in questo momento sfuggono alle definizioni di vino, che deve avere una gradazione minima del 9% V/V. Come chiamare questi prodotti? Si possono definire vino dealcolato o parzialmente dealcolato o per essi è necessario trovare una definizione diversa come quella che proponeva OIV già nel 2012 di “bevande ottenute dalla dealcolazione del vino”? In presenza di un vuoto normativo i diversi paesi hanno applicato ognuno definizioni diverse, per cui occorre ed è importante prendere in mano la questione in modo il più possibile laico. Chi può escludere a priori che il vino italiano sia interessato a mercati (come i Paesi Arabi ad esempio) che cercano proprio questi nuovi prodotti, che potrebbero integrare e non sovrapporsi né cannibalizzare i mercati dei nostri vini e delle nostre denominazioni come si sta paventando?
Forse questo è l’argomento più controverso ma anche su questo occorre fare chiarezza, perché nessuno sta proponendo l’annacquamento del vino o la sua diluizione con acqua o peggio un intervento ai danni del consumatore che acquisterebbe acqua anziché vino.
Le pratiche enologiche attualmente escludono l’aggiunta di acqua eccetto che nei casi (e nei limiti) in cui lo si richieda per specifiche necessità tecniche, come ad esempio nella preparazione di alcuni coadiuvanti enologici. In discussione nei passaggi tra Consiglio e Parlamento Europeo dei quali stiamo parlando, ci sarebbe la possibilità di reintegrare il volume corrispondente all’alcol allontanato con la dealcolazione: il fine è quello di riequilibrare i prodotti dealcolati che a causa della riduzione di volume risultano concentrati in tutti gli altri componenti (acidi, polifenoli, collodi, sali, ecc…) e garantire loro il risultato organolettico atteso.
In sintesi nella nuova PAC si stanno riprendendo i nodi rimasti irrisolti dal 2008 ad oggi e che richiedono dei chiarimenti, un maggior controllo e nuove regole. Perché a differenza di quanto è stato scritto, non è quando si creano, ma quando mancano le regole e le cornici in grado di inquadrare scenari diversi (e comunque volontari), che si aprono gli spazi per le frodi, le sofisticazioni e le speculazioni.
Quindi siamo sicuri come abbiamo letto in questi giorni di pensare di tutelare il Made in Italy alzando le barricate verso questi nuovi prodotti e lasciando ad altri il loro mercato, oppure non sarebbe il caso di affrontare la questione lavorando sulla loro definizione e studiando bene la risposta del consumatore ai prodotti di questi tipo?
Certo ci vorranno approfondimenti, indagini di mercato e studi sul consumatore, magari un po’ più articolati della solita inchiesta lanciata con un breve Comunicato che informa la stampa italiana (che puntualmente la riprenderà) che “sei italiani su dieci preferiscono il vino con l’alcol”.
Alessandra Biondi Bartolini (articolo tratto da millevigne.it)
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Mi pare una questione di lana caprina, da sempre se un’uva ha gradazione zuccherina tropppo bassa o troppo alta per produrre un vino della corretta gradazione alcolica semplicemente la si vinifica assieme a uve di gradazione zuccherina maggiore o minore, della stessa varietà e della stressa zona, non si pasticcia il vino in post-produzione annacquandolo o alcolizzandolo.
Ad esempio,al paese dei nonni c’era una zona di terra rossa e arida che in una stagione normale avrebbe dato una barbera da 16° o più, che se vinificata da sola dava un vino nerissimo e incredibilmente tannico, che veniva chiamato “el cancaròn” (intraducibile, è la terra argillosa che asciugandosi diventa dura come pietra e si riempie di profonde crepe), e un’altra zona di terra sabbiosa e umida che dava forti produzioni ma avrebbe prodotto un pallido vinetto di 7-8°, detto in questo caso “pichéta” (che propriamente sarebbe il vino fatto con i raspi di torchiatura e i grappolini mal maturati o dimenticati a vendemmia terminata).
Ebbene, nessuno che possedesse quelle uve si sognava di vinificarle da sole ma le usava (o le vendeva) per vinificarle assieme alle uve che avrebbero dato un barbera normale ma un po’ sotto (11°) o sopra (15°) la gradazione ideale (12-14°).
L’aggiunta di acqua al “cancaròn” avrebbe prodotto una nerastra broda imbevibile, anche se di giusta gradazione, e l’uva “da pichèta” avrebbe invece richiesto l’aggiunta di zucchero (illegale) o di mosto concentrato (costoso) producendo comunque un vino di poco corpo e colore, anche se fosse arrivato ai 12°.
Spiegazione chiara, semplice, concisa, comprensibile da tutti, e pure sostanzialmente tecnica. Peccato che a Bruxelles questi concetti NON siano normalmente recepibili. E nemmeno da parte di dotti articolisti.
Dall’interessante racconto di Mario si capisce che chi legifera su queste cose non ne sa nulla della tradizione e della cultura della vinificazione e del vino.
Confermo, alla Cantina Sociale l’enologo visitava dall’invaiatura in poi le vigne del soci, valutando la produzione e i tempi di vendemmia, e prima di autorizzare la raccolta eseguiva diverse campionature per valutare il grado zuccherino e il momento ideale per iniziare a raccogliere le diverse varietà.
Sapeva già quindi con grande anticipo sulla vinificazione quale sarebbe stato l’andamento dell’annata e se la gradazione sarebbe rientrata nella norma o se fosse necessario prevedere l’acquisto di mosti concentrati o di vini da taglio per la produzione.
Annacquare o alcolare i vini è una pratica che può venire in mente solo a burocrati che non dstinguono il vino dalla cocacola.
Beh è normale. Ci sono giornalisti che stanno con l’Italia (per il vino) e giornalisti che stanno con l’Europa. Io da europeista convinto non mi fido assolutamente di nessuno dei due essendo loro comunque di parte. Ottima la risposta del signor Mario a cui nessuno ovviamente replicherà.
Miscelare le uve per ottenere un vino della giusta gradazione è da sempre la soluzione “naturale” al problema; qualsiasi soluzione alternativa avrà come prodotto non vino ma … una schifezza, perché l cose stanno esattamente come scrive Mario. Mi domando però dove stava Coldiretti quando sono stati discussi il Reg 606/2009 e poi il Reg 1308/2013). Possibile che abbia perso l’occasione per l’ennesimo procurato allarme?
Sarebbe interessante conoscere la posizione della Francia, paese grande acquirente dei nostri prodotti pugliesi proprio per l’alta gradazione alcolica: certamente risparmierebbero soldi, ma ci perderebbero in qualità.
A ben vedere forse è solo un falso problema, perchè il consumatore sa riconoscere un buon vino naturale da uno artefatto ed agli astemi possiamo continuare a dare le bevande più o meno “spiritose” … che non fanno ridere nessuno.
Signori non è questo il punto della proposta.
Ma permettere di produrre un buon prodotto enologico… “vino”? con alcool molto ridotto. Se tecnicamente fattibile avrebbe un mercato immenso…. Tra questo e un birra non avrei dubbi… Io lo farei soprattutto per motivi di salute, purtroppo patisco tantissimo l’alcool del vino, che mi provoca una tremenda sonnolenza.
Max_TO non beva vino. Mario ha ragione da vendere. C’è il vino quello che tradizionalmente si fa e si chiama appunto vino. C’è il latte di mucca o di pecora o di capra che si chiama giustamente latte. Gli altri prodotti simili vino simile latte, ad es. di soia, si chiamino come desiderano ma non sono né vino né latte. Se bevo vino desidero bere un prodotto tradizionale. Non siamo noi che dobbiamo produrre del simil vino, del simil latte, del simil parmigiano per accontentare gente senza gusto
Se la mettiamo sul commerciale ci sta tutto. Anche perché si vedono cartoni di vino a 80 centesimi il litro quindi nessuna concorrenza per il vino vero. Purtroppo c’è gente che non si può permettere vino o olio extravergine di alta qualità e si concede quello che può. E mi dispiace tantissimo ma se il prodotto è in commercio non fa male. Sempre meglio di prima quando vino e olio extravergine lo bevevano soltanto un 5%. Darà mica fastidio a qualcuno con la puzza sotto il naso
Gentile Tonino Riccardi,
Premetto una citazione. “Il più grande problema della comunicazione è che non ascoltiamo per capire. Ascoltiamo per rispondere” (S. R. Covey). Detto questo e vale anche per la “comunicazione” scritta. Ho affermato solo e soltanto che il vino, in Italia, è quello fatto con metodi tradizionali accompagnati dalla scienza degli enologi. Così il latte, ecc… Altri prodotti si possono fare ma non sono il latte e non sono il vino e non possono fregiarsi del titolo di vino o latte. Il problema della capacità di acquisto delle persone è un’altra questione importantissima che possiamo rubricarla sotto l’argomento di una equa ridistribuzione della ricchezza prodotta. Ma non era questione del contendere. Buona giornata Piero
Piero, il fatto è che a me, guarda un po’ farebbe piacerebbe bere un prodotto della vite simile al vino, non industriale, con poco contenuto alcolico tanto da non farmi stare male, ma caratterizzato da una etichetta seria, e sono disposto a spendere 6-8 euro a bottiglia. Non credo di essere una mosca bianca ma un mercato potenziale, grande. C’è il te deteinato, il caffe decaffeinato, e tanto altro… perché non un prodotto delle uve fermentate con le caratteristiche di un ottimo vino ma con poco alcool per merito di tecniche di cantina, dopotutto ad esempio di un intervento tecnico pesante, prima della fermentazione a freddo ad esempio i vini bianche era ben diversi da ora o sbaglio?
Non credo che i legislatori intendano spalancare porte a bibite si basso prezzo ma ampliare il mercato della vite.
Anch’io soffrendo di ipertensione ho ridotto il consumo di vino. Ma quando me lo concedo deve essere ottimo VINO. Essere vino non qualche prodotto similare contrabbandato da vino. È. Come con la bagna couda fatta secondo tradizione non con l’aglio fatto bollire nel latte. Tanto per essere chiaro. Il mio, espresso male, voleva essere un cosiglio non una battuta di cattivo gusto
Mi sembra che l’articolo chiarisca che nessuno ha proposto di annacquare il vino per ridurre la percentuale d’alcol, bensì vari gradi di dealcolizzazione dei vini con tecniche specifiche. Il prodotto così ottenuto andrebbe commercializzato con il nome da definire e certamente troverebbe un discreto favore dei consumatori, senza contare che farebbe un concreta concorrenza alla birra. Non scorgo nulla di negativo, anzi mi sembra un’ottima idea a vantaggio della salute dei consumatori che lo vorranno acquistare e dei produttori di vino che aumenteranno la loro gamma di offerta.
Mah, da quando è stata introdotta la birra analcolica non mi sembra che la qualità di quelle “normali” sia peggiorata, anzi…
Riguardo al nome da dare ad un vino dealcolato, boh?, la birra analcolica e comunque chiamata birra, e io non mi sono mai sentito ingannato né ho sbagliato l’acquisto confondendola.
Perché per il vino dovrebbe essere diverso? A me basta potere sapere, guardando con un minimo di attenzione l’etichetta, cosa compro!
(ricordiamoci che molti dei prodotti alimentari italiani che oggi consideriamo l’eccellenza assoluta un secolo fa non esistevano o erano molto diversi!)
Questo è vero e ho assaggiato anche io diverse birre analacoliche però devo dire che non hanno incontrato il mio gusto: non è birra, è un’altra bevanda.
Se voglio bere una birra, bevo una VERA birra,
Se invece non voglio assumere alcol, mi bevo una spremuta di arance, del succo di mirtilio o altro, c’è l’imbarazzo della scelta.
Ma non di certo un birra analcolica o un vino dealcolato.
A me è capitato di acquistare per sbaglio indotto dalla etichetta della birra veramente analcolica, che alla birra non assomigliava proprio. E non la berrò mai più. Io sono semplicemente interessato al vino a bassa o molto bassa gradazione alcolica. Il caffè decaffeinato non è poi così malaccio, il te idem. Il pane senza glutine c’è e per colmo te lo passa pure lo stato altro che farsene una ragione… ti passano pure i biscotti… Quindi lo spazio c’è e qualcuno sveglio lo riempirà, tanto vale sia un prodotto valido a riempirlo e non una simil birra analcolica.
@Max_TO25
“permettere di produrre un buon prodotto enologico… “vino”? con alcool molto ridotto”
No, permettere di prendere un prodotto naturale (vino) e alterarlo con pratiche tecnologiche (dealcolamento) INVECE di produrlo da subito a bassa gradazione, cosa che si fa da alcuni millenni come spiegato da Mario.
@Tonino Riccardi
“se il prodotto è in commercio non fa male”
Mi pare un’affermazione un po’ azzardata, e comunque un vino da 8° farà bene (o male) allo stesso modo sia che sia prodotto naturalmente cha dealcolandolo o annacquandolo da 12 a 8.
@Max_TO25
“a me, guarda un po’ farebbe piacerebbe bere un prodotto della vite simile al vino, non industriale, con poco contenuto alcolico tanto da non farmi stare male”
Non industriale, un vino dealcolato in post produzione? lo dealcolanol e fatine dei boschi? Ma ti rileggi?
@DUILIO ORSINI
“nessuno ha proposto di annacquare il vino per ridurre la percentuale d’alcol, bensì vari gradi di dealcolizzazione dei vini con tecniche specifiche”
Aggiungere acqua o togliere alcol, sono le tecniche specifiche…
@shadok
“da quando è stata introdotta la birra analcolica non mi sembra che la qualità di quelle “normali” sia peggiorata”
La qualità del vino normale non verrà toccata, non è questo il motivo del contendere, ma che invece di produrre vino a bassa gradazione si autorizzi ad annacquarlo o dealcolarlo, aprendo il vaso di Pandora delle tecniche sin’ora proibite…
Guardi mi rileggo, mi rileggo. Scrivo dal Piemonte e sono cresciuto con la cultura del vino già prima di andare a scuola…. Ho cercato di essere il più neutro e poco offensivo verso i TALEBANI possibile, usando termini politically correct per non far prendere una china indesiderata al confronto.
Secondo lei perché i piccoli produttori il moscato non se lo fanno in casa ma lo fanno elaborare da altri più attrezzati ? Perché un vino a 6° bisogna saperlo elaborare e far durare in bottiglia.
Se qualcuno mi fa un esempio in di un rosso già in commercio a 5-6° chapeau e ritiro tutto. Hanno ragione i talebani. STOP
Mauro se lei è abituato a comprare da dei ladroni non so che farci. Io quando compro qualcosa sono tranquillo al 99%. Può capitare di tutto ma la norma, e non finirò mai di ripeterlo, é che la vita media si é allungata tantissimo. Grazie a scienza e alimentazione.
Pe quanto mi sforzi, non riesco a trovare un nesso tra la mia osservazione:
“un vino da 8° farà bene (o male) allo stesso modo sia che sia prodotto naturalmente cha dealcolandolo o annacquandolo da 12 a 8.”
e il tuo commento:
“Può capitare di tutto ma la norma, e non finirò mai di ripeterlo, é che la vita media si é allungata tantissimo. Grazie a scienza e alimentazione.”
Carissimo Piero ho capito il personaggio. Lei è il tipo che ha la verità in tasca. Solo e soltanto lei. Lei invece sa di ascoltare per capire ? O risponde così. A casaccio sperando nel grullo che ci casca e non replica per evitare figuracce ?
Mauro lei si può sforzare all’infinito ma non riuscirà mai a capire più di quello che sa.
@Max_TO
Mi sembra che anche tu stia rispondendo in modo incoerente:
Hai detto:“a me, guarda un po’ farebbe piacerebbe bere un prodotto della vite simile al vino, non industriale”
Ho risposto:”Non industriale, un vino dealcolato in post produzione?”
E tu commenti:
“Secondo lei perché i piccoli produttori il moscato non se lo fanno in casa ma lo fanno elaborare da altri più attrezzati ? Perché un vino a 6° bisogna saperlo elaborare e far durare in bottiglia.”
Ma che c’entra?
Prima dici che vuoi un vino non industriale, ti rispondo che dealcolare o annacquare sono procedimenti industriali (se sdoganati, per ora sono solo illegali), e tu rispondi dicendo che chi fa il moscato non lo sa più fare? Ma che c’entra?
“Se qualcuno mi fa un esempio in di un rosso già in commercio a 5-6° chapeau e ritiro tutto.”
Per mettere in commercio un vino (o un “vino”) da 5° bisogna prima sapere che c’è qualcuno che poi te lo compera, farlo in modo naturale o industriale non cambia nulla, per ora un mercato per quel prodotto semplicemente non esiste e quindi è ovvio che nessuno lo produca.
Bene allora lasci che qualcuno lo **possa acquistare** questo vino da 5°, anche Lei è abbastanza incoerente.
Tutti siamo un po incoerenti no?
@Max_TO31
“Bene allora lasci che qualcuno lo **possa acquistare** questo vino da 5°, anche Lei è abbastanza incoerente.”
Può acquistare questo “vino” da 5° manipolato esattamente come può acquistare un vino vero da 5° fatto pigiando l’uva.
Mi pare perfettamente coerente, in entrambi i casi è necessario che la legge lo consenta, ma io propendo per la seconda soluzione, vino tradizionale fatto scegliendo le uve non manipolandolo in post produzione.
Ma perché dovrei bere vino che non è vino, birra che non è birra, latte che non è latte, carne che non è carne, formaggio che non è formaggio, ma prodotti industriali più o meno artefatti?
Perché ci ostiniamo a voler chiamare con un nome cose che non lo sono? Le chiamino in altra maniera, le mettano pure sul mercato, i consumatori le acquisteranno per quello che sono, non per quello che vorrebbero essere, e non lo sono. Non è una questione di marketing, credo sia una questione psicologica, perché anche il nome del prodotto soddisfa la psiche del consumatore, non solo il gusto. Per cui chiederei a tutti coloro che non vogliono mangiare, ad esempio, la carne, evitino di usare termini propri di prodotti che invece la contengono. Ne trarrà vantaggio il vocabolario, ma soprattutto coloro che vogliono consumare i prodotti in quanto tali, e non delle “finzioni .”
Forse perché percepiamo più o meno inconsciamente che il cibo ci fa male… Lo ha detto pure un nutrizionista famoso. Mangiamo troppo e in più cose inutili. Ma tant’è è come dire smetti di fumare ecc..
Perché viviamo in un’epoca di surrogati industriali, dalla polpetta vegetale che simula l’hamburger al tristissimo tofu che mima il formaggio, al finto latte fatto con la soia, e di prodotti di fantasia vestiti di nomi bellissimi e suggestivi, che se ci si prende il disturbo di andare a vedere come sono fatti espongono in etichetta dozzine di condizionanti, stabilizzanti, emulsionanti, conservanti, addensanti, coloranti, emulsionanti, stabilizzanti (e non espongono altrettanti “ausiliari tecnologici” che sono obbligati a farci conoscere se durante la lavorazione scompaiono dopo aver fatto il loro effetto).
E vale per tutti i cibi, come mostra un bel filmato pubblicato proprio qui sul FA ( https://www.arte.tv/it/videos/091150-000-A/l-invasione-del-cibo-spazzatura/ ) che come esempio porta il “cordon bleu” che dai 5 ingredienti di quello fatto in casa (pollo, uovo, formaggio, prosciutto, pangrattato) passa a oltre trenta (più dozzine di “ausiliari tecnologici”) in quello industriale, e nel finale, anche se un po’ a malincuore, spiega che persino quelli per glii ortoressici vegani sono prodotti allo stesso modo, con una miriade di ingredienti (senza ovviamente nulla di animale), e ultra-processati utilizzando decine di “ausiliari tecnologici” non indicati in etichetta perché la legge lo consente.
Perciò cosa di più logico che consentire alle industrie di produrre e vendere non vino a bassa gradazione (ingrediente, 1: uva) ma di prendere un vino a gradazione normale e alterarlo con mezzi tecnologici (fisici e meccanici) e chimici (gli “ausiliari tecnologici”) per portarlo a gradazione bassa, o addirittura più semplicemente di annacquarlo (e poi stabilizzarlo in qualche modo, o si deteriora già sul camion)? Del resto da sempre l’oste ingegnoso e attento alla salute dei suoi avventori li proteggeva dagli eccessi d’alcol attingendo assieme alla cantina e al pozzo… un ritorno ai bei tempi andati che farà felici tante anime belle che rimpiangono l’età dell’oro.
@Alessio
Concordo su tutto, solo un appunto, “ausiliari tecnologici che NON sono obbligati a farci conoscere” (il NON ti era rimasto nella tastiera…), la trappola sta proprio nel fatto che in produzione puoi usare qualunque prodotto chimico, che se una volta svolto il suo compito (ad esempio un acido modificare il pH) si trasfoma in acqua e anidride carbonica non c’è nessun obbligo di dire che lo si è usato.
Il link al filmato dà errore 404, l’avranno rimosso, comunque lo si trova integrale su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=OyM7B51qDCg l’avevo trovato dopo che anch’io avevo cercato di rivederlo partendo dall’articolo di FA che avevo salvato.
Tornando invece all’articolo, nel testo si dice che “In discussione (…) ci sarebbe la possibilità di reintegrare il volume corrispondente all’alcol allontanato con la dealcolazione” agendo su ” tutti gli altri componenti (acidi, polifenoli, collodi, sali, ecc…)”.
Che a casa mia si chiama “fare il vino con le polverine”…
Temo che dopo la campagna vaccinale che sta dando ottimi risultati la marea di “esperti virologi” si sia trasferita nelle periferie del web non avendo più argomenti da sottoporre all’attenzione dell’ OMS. Più le persone non capiscono un accidenti di un argomento più si infervorano nel volerlo spiegare. Per fortuna iniziano gli europei cosi si tolgono di mezzo e vanno a fare i CT.
In attesa di assaggiare il vino a 5°…
A proposito del link postato dall’utente MAURO, consigli di cercare testi dell’autore Christophe Brusset sono ormai 3, dedicati alla manipolazione industriale del cibo.