La produzione di metano legata alle attività antropiche è una questione sempre più urgente come scrive in questo articolo Mauro Antongiovanni sul sito dell’Accademia dei Georgofili che proponiamo ai nostri lettori.
“Il metano ti dà una mano” era lo slogan pubblicitario di qualche tempo fa, che ci invitava a consumare il metano (CH4) come fonte energetica, in quanto il meno inquinante fra i combustibili fossili e non fossili. Ma c’è chi, oggi, punta l’indice contro il metano se prodotto dall’apparato digerente degli animali erbivori a partire dalla componente alimentare fibrosa o prodotto dalle fermentazioni vegetali nelle acque delle coltivazioni del riso e rilasciato in atmosfera. Il contributo alla diminuzione della concentrazione di gas serra in atmosfera che può venire dalla regolamentazione delle attività agricole appare modesto, rispetto a quanto si possa ottenere ponendo un freno all’uso di combustibili fossili nelle centrali elettriche, nella climatizzazione degli ambienti e nei trasporti terrestri ed aerei.
Secondo i bollettini della FAO (2006 e 2019) il contributo delle attività zootecniche alla produzione totale di gas serra (N2O, CO2, CH4 e H2O) è di circa il 18% in termini di CO2 equivalenti, il resto si deve alle centrali di produzione di energia, ai trasporti, all’industria e alla climatizzazione ambientale. All’interno di questo 18%, il CH4 contribuisce solo per l’8%, anche se è 20 volte più potente della CO2, come effetto serra. Nell’ambito, invece, delle attività agricole, il CH4 prodotto si deve per il 77% alla zootecnia, per l’11% alla risicoltura e per il resto alle altre produzioni agricole.
Ogni settore delle attività umane si deve assumere le proprie responsabilità e agire di conseguenza per ridimensionare l’enorme problema del riscaldamento globale che ci porterà non sappiamo precisamente dove, ma sicuramente ad affrontare grossi problemi di sopravvivenza. Sentire qualcuno che auspica l’eliminazione degli animali erbivori, selvaggi e allevati, dalla faccia della terra, o la messa al bando della risicoltura è paradossalmente ridicolo: siamo più di otto miliardi, tutti sullo stesso pianeta che sta diventando troppo piccolo e dobbiamo mangiare per sopravvivere. Anche se non tutti sono d’accordo, non sembra consigliabile eliminare gli allevamenti di animali erbivori e, quindi, gli alimenti di origine animale dalla dieta dei bambini di tutto il mondo e il riso dalla dieta delle popolazioni asiatiche. Ci siamo evoluti diventando onnivori, come ci dimostrano i reperti archeologici dell’homo erectus, comparso in Africa due milioni di anni fa, per il quale il passaggio da erbivoro a onnivoro ha comportato, fra l’altro, l’aumento del volume della massa cerebrale del 25%. Vogliamo cambiare i nostri fabbisogni nutritivi senza considerare le conseguenze di una scelta del genere?
Allora, limitatamente alle responsabilità relative alle produzioni di gas serra connesse agli allevamenti, cosa possiamo fare? Prima di passare alle proposte, è opportuno fare alcune considerazioni sulle caratteristiche digestive degli erbivori, in particolare dei ruminanti, i maggiori produttori di metano per il tramite delle loro fermentazioni digestive.
Nei ruminanti ciò che avviene nel rumine è cruciale in termini di efficienza di conversione dei nutrienti alimentari in nutrienti del latte e della carne prodotti, a opera, soprattutto, del microbioma ruminale. Per questo è necessario agire per modificare le specifiche vie metaboliche microbiche senza, peraltro, interferire negativamente su quantità e qualità delle produzioni. Ricordiamoci anche che i ruminanti, grazie al lavoro del loro microbioma, sono in grado di utilizzare la fibra alimentare, sia come fonte di nutrienti che come fonte di energia, purtroppo solo parzialmente per quanto riguarda quest’ultimo aspetto. Tant’è che si forma il metano, pericoloso gas serra, ancora ricco di energia. È uno dei classici esempi di coperta troppo corta: da una parte è opportuno favorire i microrganismi fibrolitici, che permettono di utilizzare alimenti fibrosi come i foraggi, con il problema del rilascio di metano nell’ambiente; dall’altra parte, limitando i foraggi a favore dei concentrati, si riduce sì la quantità di metano prodotto, ma si possono determinare situazioni patologiche gravemente compromissorie del benessere dell’animale, come le acidosi.
Nei prossimi anni verranno sicuramente imposte forti restrizioni sulla produzione zootecnica di metano, come combinazione delle richieste degli ambientalisti e delle regolazioni dei governi, specie in Europa. È opportuno che i nutrizionisti si preparino a questa prospettiva futura con delle proposte affidabili. Premesso tutto ciò, ecco tre indicazioni di base, ampiamente condivise dagli esperti.
1.- Scelta degli ingredienti della razione: ridurre al minimo il rapporto foraggi/concentrati. Tutte le guide di alimentazione, da quella dell’INRA francese a quella della Cornell University americana, danno indicazioni in questo senso. La produzione di metano viene ridotta, anche come conseguenza dell’aumento della velocità di transito dal rumine;
2.- Attenzione alla qualità dei foraggi: che non devono essere troppo maturi, ovvero troppo fibrosi. Ciò vale anche per la qualità degli insilati, che dipende anche dalla correttezza delle tecniche di insilamento;
3.- Impiego di additivi nella razione: estratti di aglio, oli essenziali, polifenoli, farine di alghe marine, si sono dimostrati utili additivi, sia nel deprimere la metanogenesi, sia nel migliorare quanti-qualitativamente le produzioni di latte.
Comunque, ben vengano le proposte migliorative in tutti i settori
Mauro Antongiovanni – Accademia dei Georgofili
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ringrazio l’autore per i dati forniti e suggerisco comunque di differenziare gli allevamenti intensivi che nei suoi tre punti finali si intende promuovere e gli allevamenti estensivi con animali al pascolo che non usano concentrati OGM ormai presenti ovunque. L’alimentazione più “ricca” per la popolazione più ricca del globo non è certo accettabile se muoiono di fame ancora troppe persone. si dimentica poi sempre che produrre alimenti ogm per gli allevamenti intensivi non fa bene ne alle foreste dell’Amazzonia, ne agli animali, nè a chi se ne ciba. Ricordiamo che i “nutrizionisti” si ostinano ancora a non dare nessuna importanza al cibo sano e biologico, permettono che l’educazione alimentare si affidata a subrette televisive e non mostrano mai le realtà degli allevamenti intensivi. Citiamo infine che la maggior parte dell’ammoniaca in Toscana dove ha sede l’accademia dei Georgofili è prodotta dalle centrali geotermiche
Nell’articolo farei riferimento al “microbiota” invece che al “microbioma” in quanto non sono sinonimi.
Per microbiota si intende una popolazione di microrganismi in un determinato ambiente e tempo, mentre per microbioma si intende la totalità del patrimonio genetico posseduto dal microbiota, cioè i geni che quest’ultimo è in grado di esprimere.